Dopo Tree of Life non era possibile che Terrence Malick tornasse indietro, To The Wonder si sbarazza definitivamente dell’impianto colossale che nel precedente film dialogava con quei dieci, cento, mille film aperti dalla vicinanza famigliare della Red One ai corpi e alla luce per mantenere solamente questi. Sono due film inscindibili, un dittico che precede il prossimo già annunciato, di cui non possiamo immaginarci ancora la forma e che approfondisce in modo evidentemente più radicale quel processo di scambio tra quello che conosciamo (o crediamo) come cinema e una “lingua” cinematografica primordiale per come la definiva Pier Paolo Pasolini.
In To The wonder, il continuo deambulare fanciullesco di Olga Kurylenko che ha infastidito più di una persona, sembra tragicamente destinato ad una lotta del corpo con la luce, con le mani sempre dirette verso il cielo in un tentativo che Malick filma spesso con il gesto di una mano mentre cerca di afferrare l’aria, movimento familiare quando ci troviamo a giocare con il sole e allo stesso tempo segno di un cinema impossibile che cerca di superare il limite del visibile con un tentativo di rendere l’occhio tra il tatto e l’assenza dello stesso.
Tra la frammentazione estrema del punto di vista e l’ipovisione, tra l’immagine e un punto cieco, c’è un’aderenza quasi pulviscolare alle rifrazioni di luce e soprattutto un’intimità che spazza via il cinema industriale ma anche quello sperimentale, perchè se la tentazione più forte potrebbe essere quella di avvicinare questo rifiuto del cinema narrativo a quello studio dei fenomeni percettivi che era di cineasti del limite come Stan Brakhage, penso soprattutto alle sue “Songs”, la dimensione familistica delle nuove DSLR per Malick è un tentativo tragico di oltrepassare l’immagine nel ritmo di un’elegia individuale che si serve dei formati ridotti per cogliere l’istantaneità di un gesto non manipolato, attraverso un imponente viaggio di superamento dell’esperienza fenomenologica. Una relazione difficile con l’invisibile che in To The Wonder ha il peso del silenzio di Dio, probabilmente;
Javier Bardem, sacerdote in costante movimento, cerca questa presenza nelle forme tumorali della natura calandosi in mezzo alla malattia con la stessa ansia della Kurylenko, in una costante relazione con la finitezza della morte, Malick lo segue in questa geografia incongrua che sovrappone più luoghi in un viaggio senza latitudine alla ricerca probabilmente di quel punto che Martin Sheen osservava dall’abitacolo dell’aereo.
Come avrebbe potuto tornare indietro oppure replicare il viaggio digitale di Douglas Trumbull? Se il press kit del film che era stato diffuso a Venezia cercava di imbastire alcuni punti di sutura accontentando i giornalisti più pigri e inserendo elementi biografici dei personaggi quasi ad abbozzare un tentativo di guida con una sinossi ad uso stampa, è perchè probabilmente ci si poteva immaginare su quali aspetti avrebbe tuonato la critica di massa che entra per prima, da anni, al festival che si svolge in laguna; avrebbe reclamato a gran voce una storia, la psicologia dei personaggi, un frammento di cinema del passato, un segno di appartenenza a quella “Storia” del “Cinema” che per Malick è un filtro già superato.