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Top of The Lake – China Girl: Episodi 1-6, la recensione

Jane Campion Top of the lake seconda stagione

a little ray of sunshine has come into the world,
a little ray of sunshine in the shape of a girl

(Axiom – 1970)

Ancora l’acqua e un corpo, quello di Cinnamon, una prostituta sistemata in un trolley di grandi dimensioni, lanciato tra i flutti che circondano Bondi Beach, la grande spiaggia a est di Sidney.

Non sono misteriose le sue origini, perché le prime immagini ci mostrano chiaramente Dang (Ling Cooper Tang) e Booty (Kim Gyngell), i due tenutari del bordello Silk 41, mentre occultano il cadavere lanciandolo dalla parte più alta della scogliera.

Sono e rimarranno nebulose le cause, attraverso una ricerca che scopre progressivamente il cuore nero di una comunità urbana, sospesa tra desiderio e abbandono, abuso e riscatto, dove la connivenza diventa una questione culturale, legata alle origini stesse del concetto di famiglia.

Scritto da Jane Campion ancora una volta insieme a Gerard Lee e condiviso dietro la macchina da presa con Ariel Kleiman (Partisan), Top of The Lake: China Girl è un vero e proprio sequel, ma allo stesso tempo innesca i meccanismi della dimensione seriale, sostituendo e trasmigrando molti degli elementi che costituivano l’ossatura della prima stagione e invertendone il senso, la polarità e gli effetti.

Fuori dalla natura selvaggia neozelandese, gli ambienti sono quelli di Sidney, tra degrado e alta borghesia, intellighenzia e proletariato, dove il confine tra legalità e illegalità, in assenza di regole certe e di un vero e proprio stato di diritto, è un sottilissimo limite determinato dalle condizioni economiche. Robin Griffin (una sempre vibrante Elizabeth Moss), detective, si allontana dalla Nuova Zelanda, lasciandosi alle spalle gli eventi traumatici che l’hanno coinvolta durante le indagini legate ad una rete di pedofili.

Al trauma di un’oscura storia di abusi che affonda le radici nel passato, si aggiunge il naufragio della relazione con  Johnno (Thomas M. Wright) alla vigilia del loro matrimonio, primo segno del colpo di spugna che la Campion opera sui personaggi apparentemente positivi, cambiando continuamente punto di vista e percezione,  offrendo quasi sempre una prospettiva ambigua sulle ragioni di un patriarcato culturale, basato sull’istinto predatorio e che coinvolge uomini e donne.

La sfiducia totale nelle relazioni e un maschilismo strisciante percepito in ogni ambito, non ultimo quello cameratesco dei colleghi in Polizia, indurisce Robin rispetto a qualsiasi forma di contatto che non sia professionale e allo stesso tempo la spinge a ristabilire una connessione primigenia con le sue origini, attraverso la relazione perduta con il fratello, descritto quasi come un estraneo e sopratutto con la figlia Mary (Alice Englert), affidata in adozione 17 anni fa, due giorni dopo il parto quando Robin era appena sedicenne.

Il corpo; abusato, espropriato, in affitto, sfruttato diventa lo strumento politico attraverso cui Jane Campion elabora la sua complessa e stratificata visione del mondo. Se nella prima stagione il dialogo sensoriale con la natura, quasi come in un racconto di Angela Carter o in una fiaba rivista dal crudo realismo di Fay Weldon, manteneva un contatto con l’elemento incondizionato della mutazione; l’apparente rilettura del diritto naturale da una prospettiva femminista  viene adesso messa in abisso con un’ambivalenza più netta, ma che già conteneva elementi critici e nient’affatto allineati, anche con il pensiero più radicale.

Sorprende leggere analisi che hanno interpretato alla lettera la dimensione del “Paradise” secondo la consueta semplificazione “new-age”, quando da quel calderone la Campion prende giocosamente le distanze sin dai tempi di Holy Smoke, con un metodo di osservazione quasi Lynchiano, mai cinico, mai giudicante, ma allo stesso tempo teso ad individuare un limite e un confine nella manifestazione delle pulsioni più oscure, incluso il cinismo.

Del resto in China Girl il “Paradise” diventa un bordello e il guru che lo tiene insieme è un personaggio controverso sospeso tra teologia della liberazione, anarco-marxismo e impostura. 

Gli aforismi di Holly Hunter erano palesemente animati da una qualità Zen, ovvero da un rovesciamento costante della realtà e delle apparenze. Suonavano ridicoli, illuminanti, liberatori e allo stesso tempo autodistruttivi, tesi alla cancellazione dell’ego e ancora imprigionati nella rappresentazione volutamente eccessiva e parodica dell’utopia. 

Il cuore filosofico dell’intera serie assume spesso i toni della parodia e non a caso, quello spirito si trasferisce nella nuova stagione, emergendo questa volta secondo un processo di disseminazione nei personaggi di Julia (Nicole Kidman) e della sua nuova compagna, docenti universitarie votate alla causa del lesbofemminismo, ma anche nel messianismo marxista e astrattamente devoto alla teologia della liberazione di Alexander detto “Puss” (David Dencik), il pappone che cita Dostoevskij educando il suo gineceo ad una presunta autodeterminazione, la cui furia contro il mondo dell’upper class oscilla tra una selvaggia pulsione animalesca e una ridicola pantomima. 

Più palesemente popolata da impostori imbevuti di ideologia, “China Girl” si sbarazza presto delle connotazioni “noir” della prima serie, girando volutamente a vuoto con una quest che non potrà mai indirizzarsi verso un solo colpevole, ma andando molto più a fondo in quella descrizione del desiderio per come l’abbiamo già esperito nella stanza dove Gilbert Osmond cerca di possedere  Isabel Archer. Un remake della stessa scena, a nostro avviso formidabile, è quella violentissima che chiude il terzo episodio della serie, dove Al Parker (David Wenham) ormai invalido e irrimediabilmente agganciato ad una sedia a rotelle motorizzata, tenta di stuprare Robin in un corpo a corpo eccessivo, disumano e infernale, con tanto di whipping, gesto estremo tra una codificata fantasia BDSM e l’antica prassi di autorità patriarcale nei confronti dei figli più ribelli. 
In questo e in altri contesti, la scrittura della Campion gioca con gli stereotipi e con un immaginario ormai sedimentato per complicare l’origine del punto di vista da cui quel topos del desiderio proviene, anche in una dimensione autodistruttiva. 

A queste figure basicamente legate ad una concezione padronale della sessualità, la cui serie sembra aver origine da quella del padre che si slaccia la cinghia, non importa se per punire o stuprare le proprie figlie (il gesto della punizione paterna per la Campion si sovrappone con quello di una sessualità dominante) si contrappongono madri ideologiche, coscienti delle proprie conquiste intellettuali, dominate allo stesso modo dal senso del possesso proprio quando il loro territorio viene pericolosamente minacciato. 

Ci vuole un certo coraggio ad affidare a Nicole Kidman un ruolo che dissolve in un istante la sua maschera attoriale per evidenziare i segni dell’età, modellandola sull’autoparodia assegnata ad Holly Hunter, ma allo stesso tempo costruendone un’altra volutamente artificiosa, basata su una serie di stereotipi e pregiudizi di correctness progressista.

Julia, madre adottiva di Mary, manifesta un pregiudizio culturale durissimo nei confronti di Puss, il fidanzato della figlia, a partire dalla considerevole differenza di età che intercorre tra i due ed esercitando una delegittimazione autoritaria nei suoi confronti.
Puss, a sua volta, utilizza l’adagio rivoluzionario sul riscatto degli oppressi sia come forma di protezione rispetto ad un disagio preventivo nei confronti di un ambiente da cui vorrebbe essere accettato, sia come alibi per occupare il luogo dello sfruttatore.
La Campion rovescia continuamente la nostra palpebra e con un procedimento che proviene direttamente dal cuore più puro del gesto dadaista, colloca i personaggi più luridi e inaccettabili in una posizione alternativa, affidando a quelli “migliori” una dimensione non così distante dall’esercizio del potere nei confronti di una realtà che comincia a sfuggire di mano. 

Difficile scorgere nella rappresentazione degli studenti universitari che si scambiano pareri sulle prestazioni delle lavoratrici del sesso uno sguardo carico di livore e disprezzo. Questa interpretazione non riconoscerebbe alla Campion la capacità di lavorare in modo stratificato sul significato letterale del segno, oltre a recare con se un pregiudizio degno di Pauline Kael. 

Nella descrizione assolutamente credibile e puntuale di una sessualità esperita attraverso le piattaforme di social networking, la cui percezione maschile, nella produzione di quello stesso immaginario, dispone ancora le regole della comunicazione,  le conversazioni da bar, notebook alla mano, non sono così distanti dal racconto di formazione di alcune commedie americane. Lo sguardo è solo apparentemente meno empatico, ed evidenzia quella distanza tra immagine e corpo alla base di una percezione passiva. Con un approccio più divertito la dipendenza del Don Jon di Joseph Gordon-Levitt non è dissimile da quella di Brett (Lincoln Vickery), stessa confusione tra sogno e realtà, immaginario e sessualità, masturbazione ed esperienza, role playing e vita. 
Certamente lo sguardo della Campion è più scuro e amaro, ma non è possibile darle torto quando descrive una collettività che ha perso qualsiasi contatto con il corpo, inclusa la comprensione della sofferenza.
Oggetto di mutazioni imposte dall’esterno, il corpo femminile diventa palesemente un contenitore, mentre l’origine della violenza comincia in famiglia o dagli skill prestazionali descritti in una conversazione da bar. Sulla formazione media del maschio occidentale la Campion ha le idee chiarissime e se lo sguardo su Brett sembra animato da una certa empatia, il suo fragile romanticismo a pagamento diventa improvvisamente lo specchio di una società mediale che compra tutto ciò che desidera; per Robin, uno solo degli sguardi possibili che la Campion dispiega, il cliente di un bordello è co-responsabile dello sfruttamento e alimenta un mercato di morte. 

Ma anche in questo caso Jane Campion non riempie un segno per orientare la visione in termini ideologici, è al contrario molto attenta agli slittamenti, alle differenze, alla sovrapposizione tra una dimensione umana e una disumanizzata. 

Il corpo viene continuamente filtrato e desensibilizzato attraverso uno sguardo infecondo, uno schermo, una barriera, un sistema a circuito chiuso, l’arena di un social network specializzato. Il corpo è il veicolo di una maternità surrogata osservata e controllata a distanza. Mantenere il contatto con esso è ormai una questione tecnologica, come già preconizzava Assayas nel seminale Demonlover, e il gesto che ci separa da una violazione o da un’assunzione di responsabilità è ormai semplice e invisibile  come l’inserimento del codice CVV di una carta di credito.  

Ma anche in questo senso, le sollecitazioni aperte dalla Campion non sono univoche e nella possibilità di essere tutti quanti conniventi ad un sistema criminale globale è la disperata necessità di uno sguardo amorevole, oltre che di uno stato di diritto, a rendere tutti quanti vittime e carnefici, fragili e spietati.

Quando l’alibi rivoluzionario di Puss tocca il fondo, nella rappresentazione più grottesca e improbabile di quell’etica che gli fa da paravento, il confronto con la comunità di genitori che si è servita clandestinamente della maternità surrogata, avviene nuovamente mediante uno schermo, confondendo le responsabilità dello sfruttamento. Lo sguardo di quegli adulti non è diverso da quello degli adolescenti puntato sul supermarket del sesso a portata di click, allo stesso tempo la Campion coglie nelle motivazioni di tutti questi personaggi, uno dopo l’altro, sofferenza e fragilità umanissime con una riduzione esemplare della parola e un’attenzione estrema al gesto.

Difficile non scorgere nelle Parole posticce di “Puss” e nei proclami para-rivoluzionari un fondo di verità, anche se il veicolo e i segni sono quelli di una Thailandia di plastica. La Campion è formidabile nel far collidere immagine e parola e nell’invertire di volta in volta la priorità, senza indicare in modo didascalico la verità. Al contrario consente che questa possa emergere attraverso gli interstizi e i reciproci rispecchiamenti, come una dimensione fortemente soggettiva.

Il personaggio di Miranda (Gwendoline Christie) l’assistente che viene messa alle calcagna di Robin, è attraversata da tutte queste contraddizioni fino in fondo. Capace di mentire e di “peccare” rispetto alla rigidità metodista di Robin, la cui visione morale è all’inizio più irregimentata di quello che ci possiamo immaginare nell’impossibilità di esprimere un gesto d’affetto, è una figura che esprime attraverso la corporeità una dimensione sfaccettata, dove il desiderio, l’infedeltà, l’infrazione, il crimine e il rifiuto stesso della crudeltà della natura, si combinano con una complessità che non è possibile giudicare, tante sono le derive in cui possiamo riconoscerci.  

Robin le fa da contraltare con un rigore morale che non corrisponde sempre ai suoi desideri. Se rispetto ad altri riesce a scorgere il germe della violazione nei gesti minimi dei compagni di lavoro per un’acutizzazione della sensibilità, dall’altro Jane Campion ne segue attentamente la morfologia affettiva attraverso i gesti bloccati, le reazioni automatiche, le esplosioni passionali o il pianto di fronte all’esperienza del dolore e della sofferenza.

Più di tutti Robin porta su di se i segni di una violenza che riconosce ovunque, anche nelle piccole prevaricazioni quotidiane dentro la famiglia di adozione di Mary. 

In questa definizione di personalità complesse attraversate dalla sofferenza, la cornice dello schermo diventa, come dicevamo, un tramite fondamentale. Anche in questo caso, lo schermo, fisico e virtuale, non è necessariamente un filtro negativo e il tentativo sperimentato da Robin mentre sfiora privatamente il passato irrecuperabile della figlia attraverso vecchi filmati digitalizzati, è un disperato gesto d’amore che infrange la freddezza del diaframma scopico. 

Anche in questo caso, l’anti-moralismo della Campion è esemplare, nella capacità di reinterpretare attraverso uno spiraglio luminoso, un segno legato alla società digitale appena mostrato nella sua dimensione negativa. Il gesto diventa quello disperato e impossibile della tenerezza.

Vicinanza e distanza si scambiano di posizione ed  ecco perché tutta la ricchissima disamina della questione legata alla maternità surrogata viene dipanata attraverso la complessità di un vero racconto corale, molto diverso da quello banalmente “collettivo” di un qualsiasi Iñárritu o dalle semplificazioni cameristiche di Sally Potter. Le motivazioni, anche quelle più brutali e apparentemente legate ad un ego ferito, sono tutte possibili, dolenti, ricche di sofferenza e verità.

Top of the Lake: China Girl riduce al minimo la presenza dei segni rituali che popolavano anche i corpi nella prima stagione. La distanza dalle radici native si manifesta pesantemente nell’immagine di una città che ha dimenticato tutte le connessioni con la cultura originaria. Allo stesso tempo, in questa visione sul ventre oscuro della città, lo sguardo è sempre più ellittico e sottrattivo e la morte, così come la possibile epifania conclusiva di un raggio di luce, rimangono fuori campo insieme ai corpi amati e violati. Da questi aspettiamo ancora il racconto di cosa realmente hanno visto.

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