martedì, Novembre 5, 2024

Touch of evil di Orson Welles: la recensione

Impossibile non iniziare dall’indimenticabile sequenza iniziale. Da quel piano sequenza memorabile che dà il via a Touch of evil (L’infernale Quinlan, nell’infelice traduzione italiana), uno dei film più ambigui della cinematografia di Orson Welles. Una combinazione di carrellate e dolly che passa con disinvoltura dal primo piano al campo lungo, dal dettaglio al campo medio, e che ha la forza semantica, concettuale e “geografica”, di far superare alla macchina da presa la frontiera tra Stati Uniti e Messico, luogo dominante nell’azione narrativa.

Il potere della macchina da presa non si tramuta solo in un puro esercizio di stile che ispirerà molti registi (si pensi ad esempio a Robert Altman a all’inizio de I protagonisti); il senso del limite e della frontiera accompagna ogni fase dell’opera, fa da contraltare al nucleo tematico della storia.

Touch of evil è infatti un film di confine, sospeso tra due mondi diversi (Stati Uniti e Messico, appunto), ma è anche considerato da molti il canto del cigno del noir classico americano, il film che pone fine ad un’epoca leggendaria segnata da atmosfere cupe, da dark lady, da influenze espressioniste.

In effetti molte componenti del noir vengono riproposte da Orson Welles: l’ambientazione notturna accentuata dai contrasti della fotografia curata dal grande Russell Metty, l’ambiguità dei protagonisti, il labile confine tra bene e male, lo sfondo criminale che fa da preambolo e chiusura all’impianto narrativo. Il tutto condito con il consueto stile Wellesiano: scelte marcate, inquadrature espressive, messa in quadro che esalta la difformità e accentua il tono antinaturalistico della rappresentazione.

Tutto il film è costruito su una polarità di fondo: da un lato Quinlan, il capitano convinto che ogni mezzo sia lecito pur di combattere il crimine; dall’altro Vargas, il poliziotto integerrimo, senza macchia nell’onore, che crede nella giustizia e nei suoi strumenti. Tra i due si innesca un vero e proprio scontro senza esclusioni di colpi. Due modi diversi di intendere la giustizia, di scontrarsi con il male. Quinlan non ha paura di oltrepassare il confine, di superare la soglia della legalità. Vargas ha una visione più rigida, non giustifica il mezzo per ottenere il fine. Due personaggi che assurgono a simbolo e mettono in crisi tutto l’insieme di valori costruito dal cinema di genere.

Il noir ha infatti sempre privilegiato il ritratto di personaggi indefiniti che si muovono ai margini e non aderiscono alla sovrastruttura organica imposta della società. Siamo nel territorio dell’individualismo, un individualismo che non trova la sua ragion d’essere nella ricerca dell’utile proprio e nell’aspirazione egoistica al proprio bene; è un individualismo dettato dal rifiuto dei canoni sociali e dalla consapevolezza che non si può porre rimedio alla crisi del reale se non affidandosi alle proprie risorse. Welles estremizza questi concetti, li porta a estreme conseguenze attraverso la dualità tra i due poliziotti, affidandoli ad un finale fortemente connotativo, con la morte di Quinlan che sembra sancire la fine di un’epoca.

Anche le due figure femminili sembrano rovesciare gli stereotipi noir. Attraverso Susy, la moglie di Vargas interpretata da Janet Leigh, e Tanya, la prostituta messicana (Marlene Dietrich), Welles gioca sulle pulsioni sessuali, sull’ambivalenza e sul senso della colpa e del peccato. Le due donne rappresentano la sensualità femminile nella cultura popolare ma non hanno un ruolo negativo come la dark lady nei noir; ne prendono in prestito solo alcune componenti per agire sulla psiche dello spettatore.

Come ogni lavoro targato Welles, sul film circolano tante leggende, spesso contrastanti. C’è chi dice che Welles si offrì all’Universal (la casa di produzione del film) per girare la sceneggiatura più brutta che avevano a disposizione. Da qui sarebbe nato Touch of evil che, in effetti, evoca molti noir di serie B, molto popolari negli anni ’50. Ed è proprio per questo motivo che l’operazione di Welles è ancora più lodevole: se il linguaggio manifesta la propria autorialità attraverso scelte nette e radicali, i personaggi acquistano un tono solenne, si spogliano dello stereotipo di partenza per farsi grandi figure drammatiche e shakespeariane.

La cosa che è certa è che il film, in fase di post produzione, fu tagliato di molte sequenze. La Universal arrivò addirittura a rigirare alcune scene, senza Welles, che erano state definite poco chiare. Uno smacco che il regista non accettò di buon grado e che testimoniò ancora una volta il suo pessimo rapporto con il sistema hollywoodiano.

Il montaggio curato da Aaron Stell dello staff Universal a partire dal luglio del 1957 fu la causa di una forte reazione da parte di Welles che nell’autunno dello stesso anno scrisse una lettera di ben 58 pagine ad Edward Muhl, il responsabile di produzione della Universal. I cambiamenti suggeriti da Welles non furono ascoltati e la versione uscita nelle sale nel febbraio del 1958 e circolata per i successivi diciotto anni era quella di 93 minuti. Quella del 1976 diffusa per il mercato video e truffaldinamente definita dalla Universal come un director’s cut fu messa in circolazione senza interpellare Welles. Questa versione in particolare conteneva quindici minuti di scene aggiuntive, alcune delle quali dirette da Welles, mentre altre erano realizzate da Harry Keller, assoldato dalla casa di produzione per “chiarire” alcuni passaggi ritenuti oscuri. Entrambe le versioni erano distanti dalle intenzioni di Welles. La prima possibilità di affrontare un restauro più vicino alle sue volontà si affaccia nel 1992 quando Jonathan Rosenbaum pubblica alcuni appunti Wellesiani su Film Quarterly, vergati da Welles nel 1958, lungo percorso documentato anche nel libro di Rosenbaum intitolato Discovering Orson Welles e che ha avviato quel processo di revisione del film che nel 1998 fu affidato al montatore Walter Murch e all’opera di restauro di Bob O’Neil.

Per un approfondimento, il video di Rosenbaum pubblicato il 6 maggio del 2015 in occasione del 100/mo anniversario dalla nascita di Welles da fandor.com “Orson welles at 100

Orson Welles at 100 (with Jonathan Rosenbaum) from Fandor Keyframe on Vimeo.

Michele Nardini
Michele Nardini
Michele Nardini è laureato in Cinema, Teatro e produzione multimediale all’Università di Pisa e ha alle spalle un Master in Comunicazione pubblica e politica. Giornalista pubblicista, sta maturando esperienze in uffici stampa e in redazioni di quotidiani, ma la sua grande passione rimane il cinema

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