Home festivalcinema Trieste Science+Fiction 2014: Jodorowsky’s Dune di Frank Pavich: la recensione

Trieste Science+Fiction 2014: Jodorowsky’s Dune di Frank Pavich: la recensione

L’indagine di Frank Pavich penetra negli spazi quotidiani dell’instancabile maestro Alejandro Jodorowsky e ne ripercorre la sua carriera, a partire dalla grottesca, allucinata e scandalosa opera prima Fando y Lis. Il suo primo approccio, scevro di tecnica e metodo, al mezzo cinematografico, che divenne però grande amore, grande voglia di sperimentare e di aprirsi ad “una nuova percezione mentale”, per usare le sue parole.

Il suo è un cinema in cui conflagrano indistintamente immagine, letteratura e poesia. Opere definibili come dipinti d’arte più che film convenzionali. Ma ciò che traspare più di tutto è proprio la sua incorruttibilità, il suo essere prima di tutto spirito più che materia, artista più che tecnico. E al di là dei capolavori unici come El Topo o La Montagna Sacra, il suo più intimo lavoro, coltivato ma mai sbocciato, fu proprio Dune.

Ciò che cercava, confessa Jodorowsky, era ricreare quelle allucinazioni e quelle percezioni extrasensoriali che l’LSD, in largo uso nel tempo, riusciva a produrre. Un viaggio che aprisse la mente, in espansione continua proprio come l’universo. E quale opera si addiceva meglio a simili intenti se non il ciclo di Dune di Frank P. Helbert?!

Ma quella del maestro cileno non voleva essere solo una trasposizione cinematografica del romanzo di successo (come fu purtroppo la deludente versione di David Lynch), ma un contesto, una dimensione siderale da cui partire per restituire all’umanità uno spettacolo di immagini che racchiudesse, oltre all’essenza spirituale del libro, il suo personale profluvio di visionarietà. Il risultato finale sembra “un’opera d’arte proveniente da un altro universo”.

Condendo la narrazione con esilaranti episodi e con la sua abituale enfasi teatrale, Jodorowsky racconta come quel film tanto ambizioso in realtà già avesse preso vita nella sua mente e sulla carta, grazie al prezioso contributo di artisti e fumettisti del calibro di Jean “ Moebius” Giraud, H. R. Giger e Chris Foss, e come già tutto il cast fosse stato già ingaggiato per la definitiva messa in scena. Nomi del calibro di David Carradine nel ruolo del Duca Leto, Orson Welles nelle vesti ideali del grasso e voluttuoso Barone Harkonnen e addirittura Salvador Dalì, Mick Jagger e giovani attori della Factory di Andy Warhol per ruoli secondari, oltre all’utilizzo delle musiche psichedeliche dei Pink Floyd e delle feroci e cupe sonorità dei Magma, fino a rifiutare il contributo del mitico curatore degli effetti speciali di 2001: Odissea nello spazio, Douglas Trumbull, considerato troppo specialista, troppo tecnico, e ripiegando sul più eccentrico Dan O’Bannon; per ribadire il concetto che nel processo creativo viene prima l’arte e poi la teoria.

Un lavoro che sulla carta risultava la più monumentale opera mai creata. Un vero e proprio patrimonio per l’umanità (come amava definirla l’artista): “Fare quel film era per me una cosa sacra. Credevo che avrebbe cambiato la mente dei giovani”.

Ma queste idee metafisiche e spirituali spaventarono gli Studios hollywoodiani, che non accettarono di produrre il film. Una sciagura per un progetto che ambiva alle vette più alte della cinematografia, ma che tutto sommato riuscì a sopravvivere, mutando semplicemente forma e condensandosi in un libro magno, una Bibbia a tutti gli effetti, ricettario preziosissimo per le generazioni future di cineasti, da Zemeckis a Lucas, da Cameron a Scott, che ne attinsero chiaramente la visionarietà, l’estetica e addirittura i movimenti di macchina, partendo proprio da quell’incipit in piano sequenza che dallo spazio profondo si stringe su un dettaglio, sul modello de L’infernale Quinlan di Welles. Un’opera estremamente influente che trasformò drasticamente il genere sci-fi, insomma.

E la definitiva serie fantascientifica a fumetti L’Incal riuscì a supplire egregiamente a questo sogno infranto, arrivando così a trasformare la pittura in animazione. Una conclusione che tutto sommato soddisfa Jodorowsky e lo rende cosciente del fatto che quell’universo esploso troppo presto ha in realtà contaminato con i suoi frammenti mille altri mondi.

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