Ci sono alcuni segnali, chiarissimi, in “Una folle passione” che suggeriscono quale sia il “metodo” Bier e la sua idea di cinema. I più evidenti si riferiscono alla relazione tra “Serena” (Jennifer Lawrence) e il mondo animale; quando la donna si sarà definitivamente stabilita nella fabbrica di legname di George Pemberton (Bradley Cooper) assumendone il comando a fianco del marito, suggerirà ai suoi collaboratori di far importare un’aquila per stanare i pericolosi serpenti a sonagli che minacciano l’incolumità degli operai; il grado di confidenza che Serena stabilisce con il volatile è praticamente immediato e sottolineato da una sequenza che senza particolare ambiguità, trasforma lo strano dialogo in una metafora, suggerendo la radice filosofica di questo racconto di “rapacità” ambientato nell’America del ’29, come piantata sul limite tra desiderio e follia fuori controllo, la stessa che muove lo stato di necessità di una bestia ferita, analogia che nel caso di “Serena” viene esplicitata più volte durante il film.
Oltre all’aquila e ai serpenti a sonagli, le Smoky Mountains collocate al confine tra il Nord Carolina e il Tennessee, ospitano un orso e un puma, il secondo strettamente connesso alla vicenda non solo da una prospettiva drammaturgica ma esplicitamente simbolica.
Questa tendenza alla teatralizzazione degli elementi materiali del set, trova risonanza nei colori, nei vestiti della Lawrence, nel rosso sangue che si accende più di una volta in funzione prolettica come preparazione del destino, che nel caso di Serena va nella direzione di Lady Macbeth travestita da Barbara Stanwyck nel fulleriano “Quaranta Pistole”.
Sceneggiato da Christopher Kyle, che nei primi 2000 aveva cominciato un interessante sodalizio con Kathryn Bigelow scrivendo per la regista americana un paio di film, tra cui lo splendido “The Weight of Water”, “Una folle passione” è tratto dal romanzo di Ron Rush, specialista di cultura Appalachiana che forse avrebbe meritato uno sguardo diverso e molto più aderente alla “wilderness” della sua prosa, il cui equilibrio tra brutalità e meraviglia viene completamente neutralizzato dall’ossessione per la maniera dell’autrice danese.
Perchè quello che è difficile perdonare al film della Bier è la sua fredda equidistanza dai corpi, il suo modo di muovere improvvisamente l’inquadratura senza destabilizzare lo sguardo, la descrizione della follia attraverso la superficie simbolica dell’immagine; “Serena” non riesce a ferire contenendosi entro i confini di un’immagine convenzionale, alla cui resa contribuisce la fotografia turistica di Morten Søborg, che già in “Valhalla Rising” di Refn ci aveva mostrato una versione digitalmente piatta di alcuni scenari naturali.
Persino Jennifer Lawrence, attrice dal grande talento istintivo, pur rappresentando il centro caotico dell’intero sistema, rimane congelata nell’ineluttabilità della sua parte e più si avvicina al suo destino tragico, più perde in intensità per la volontà della Bier di spiegare e razionalizzare tutto, anche attraverso la saturazione dei soli riferimenti simbolici.
Susanne Bier, il cui cinema non ci ha mai convinti del tutto, conferma la sua rovinosa deriva verso il simulacro di una certa cultura americana che evidentemente non le piace e che si ostina a percorrere con tiepidi tentativi metatestuali di sconfortante neutralità; nessuno pretende che sia Easwtood (e ci piace immaginare cosa sarebbe stato il romanzo di Rush in una versione diretta da Clint) ma qui non siamo neanche dalle parti del comunque ottimo Ang Lee, quando mescola generi popolari e culture diverse, con la grande capacità di lavorare sugli stereotipi del cinema di consumo mostrando forte consapevolezza e lucidità su limiti e confini dell’immagine.