L’Istanbul di Until I Lose My Breath è uno spazio liminale, come nel precedente Ich Liebe Dich la giovane regista turca Emine Emel Balci descrive figure femminili divise tra la necessità di costruirsi un futuro e una condizione sociale che non sembra avere sbocchi. Al posto delle donne di Şanlıurfa sospese tra la lingua madre e l’ipotesi di imparare il tedesco per ottenere il visto di ingresso per ricongiungimento familiare, c’è Serap, giovanissima ragazza impiegata in una fabbrica tessile, ospitata momentaneamente dalla sorella e con un padre camionista perennemente disoccupato, anche a causa di un debito sulle spalle contratto dopo un brutto incidente. Mentre il cognato chiede insistentemente a Serap di portare i soldi a casa, la ragazza li mette da parte nascondendoli in un posto sicuro all’interno della fabbrica, nella speranza che il padre si sistemi nuovamente, il debito venga sanato ed entrambi vadano a vivere in un nuovo appartamento condiviso.
Emine Emel Balci mette al centro l’interpretazione della bravissima Esme Madra secondo un metodo esplicitamente dardenniano, basato sul pedinamento e l’incombenza di una falsa soggettiva, per stabilire una relazione continua tra i gesti e il peso degli oggetti. Rispetto al cinema dei fratelli belgi c’è una maggiore semplificazione che avvicina Until i lose my breath ai loro primi film sopratutto per la centralità della prassi lavorativa, elemento che assume una valenza prossemica, ma che serve anche a delineare il tracciato di una vita sociale chiusa, determinata da regole meccaniche dove il peso immutabile della tradizione è in realtà modellato su quello del denaro.
La Balci applica sostanzialmente un metodo ad una realtà che conosce bene, toglie qualsiasi fonte sonora che non sia diegetica, punta uno sguardo preciso e distante sulla quotidianità dello scambio mercantile e ad eccezione del rapporto tra Serap e la nuova stiratrice, descrive un mondo di relazioni guidato dalla paura e dall’inganno. La stessa Serap sembra animata dall’ostinazione di Rosetta e la necessità vendicativa di Aarne, la fiammiferaia di Kaurismaki.
È innegabile la capacità della Balci nel muoversi entro un territorio semantico già esplorato da altri cineasti sopratutto europei, descrivendo tutta l’umanità che circonda Serap con un’estrema attenzione per il dettaglio, le improvvise rivelazioni dell’occhio e i gesti minimi. Tutte le sequenze che raccontano la nascita di un inedito rapporto di fiducia tra la ragazza e la nuova stiratrice sono attraversate da una fulgida e intensa semplicità, che esce dallo schema imposto del pedinamento. Ma è la stessa città ad occupare un ruolo importante nel film della Balci, osservata attraverso i percorsi di Serap e illuminata da una luce livida, emerge con un ritratto totalmente distante dalla rappresentazione oleografica di Istanbul e delle sue tradizioni; è in questo spazio oscuro che il rapporto tra vecchie e nuove generazioni risulta come intrappolato in una wasteland senza futuro.