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Via dalla pazza folla di Thomas Vinterberg: la recensione

Thomas Vinterberg e la sua debolissima versione di Far from the madding crowd. Nelle sale italiane, la recensione

Sembra quasi che Thomas Vinterberg abbia interpretato l’adattamento di Far from the madding crowd scritto da David Nicholls tirando fuori dal personaggio di Bathsheba Everdene quelle qualità che attraversano le figure femminili create da Jane Austen e che non sempre vengono individuate quando si parla dei romanzi di Thomas Hardy. Come la Austen, Hardy testimonia quel passaggio complesso dove la volontà individuale entra in collisione con le imposizioni della società vittoriana; nella dimensione molto più ampia del suo pessimismo schopenhaueriano, le figure femminili create dalla fantasia dello scrittore inglese incarnano la tensione irrisolta verso un desiderio inappagabile, dall’odissea di Tess al femminismo modernista di Eustacia Vye.
Il lavoro di Nicholls, rispetto alle tre ore del film girato da John Schlesinger nel 1967, condensa maggiormente il peso che lo stesso Hardy aveva destinato ai cinque personaggi principali, mettendo al centro la sola Bathsheba nel suo percorso di formazione affettiva e individuale, mentre lo sguardo di Vinterberg, con le stesse intenzioni sottrattive, cerca di rilevare nel volto di Carey Mulligan una forma invisibile di erotismo che si esprime attraverso emozioni soffocate, come nella scena in cui il Sergente Troy (Tom Sturridge) fa il suo numero con la spada e Bathsheba rimane in piedi tra paura e desiderio.

Sembra quasi che il rigore autoimposto del Dogma venga re-interpretato dal regista danese accordandosi sui parametri delle produzioni BBC, molto letterarie e controllatissime. C’è in effetti tutto l’universo di Thomas Hardy nelle immagini di Far from the madding crowd, incluso il ruolo distruttivo della natura, indice di quel pessimismo di cui si parlava e che schiaccia gli individui rispetto ad una volontà immanente contro la quale non è possibile opporre la propria. Ma la sensazione che sottrarre sia anche sinonimo di distanza sembra confermata dalle sequenze in cui la furia della natura, seppur presente, rimane sullo sfondo di una dimensione bucolica che attraversa tutto il film e rispetto alla quale Vinterberg non riesce a stabilire una relazione intensa. Le pecore ammalate, gli incendi e la pioggia che minacciano la fattoria,  l’impermanenza della natura che muta i rapporti di forza anche in termini sociali, sono temi che vengono declinati in forma sin troppo didascalica senza far esplodere quel contrasto tra volontà e sentimento che per esempio, nel cinema visionario e più selvaggio di Jane Campion, promana proprio dagli epifenomeni naturali e dal modo in cui questi investono volti e corpi.

Vinterberg realizza in fondo il suo film più accessibile, reintegrando tutti i difetti della sua, sopravvalutatissima, parabola come autore, dove lo sguardo è un po’ come la spada del Sergente Troy, potrebbe spellarti vivo, ma preferisce fermarsi al ritratto.

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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