Suha Arraf esordisce alla regia dopo tre documentari e due sceneggiature con un lungometraggio decisamente interessante, che analizza la questione palestinese da un punto di vista inedito.
Juliette, Violette e Antoniette tre donne alle quali la vita non ha sorriso, vivono rinchiuse in una casa di Ramallah, luogo un tempo splendido, adesso città occupata e fatiscente. Solo alcune ville sono rimaste in piedi, pallidi ricordi di un antico splendore perduto. È in uno di questi luoghi che vivono le protagoniste, seguendo un rigido codice, rinchiuse in una bolla temporale che si è fermata a tempi migliori, prima della guerra.
L’arrivo improvviso della nipote Badia, figlia del loro defunto fratello, porterà ad uno sblocco di questa paralisi nostalgica, non senza conseguenze.
La regista Suha Arraf, già autrice della sceneggiatura de “la sposa siriana” e “il giardino di limoni”, si cimenta con un’opera complessa, sviluppata tutta in interni, quelli di villa Touma, luogo sicuro e allo stesso tempo ostile, perchè le difficoltà che affronta Badia all’interno sono metafora delle tensioni esterne, che volutamente la regista non mostra, concentrandosi su stanze, vestiti e attitudini interne alla vita della villa stessa.
La rappresentazione della guerra passa attraverso questo filtro, che non riduce l’impatto traumatico del conflitto, rendendolo al contrario molto più acuto per lo spettatore
Se la prima parte del film infatti oscilla tra i toni della commedia e le caratteristiche di un romanzo di formazione, la seconda parte trasforma il tutto in un dramma nerissimo, nonostante Suha Arraf mantenga comunque un sottile tono ironico per tutta la durata del film. Le vicissitudini di Badia, orfana che è costretta dalle sorelle ad acquisire le buone maniere previste dall’etichetta per potersi sistemare con un ricco marito dell’aristocrazia cristiana, lasciano spazio al dramma dell’abbandono, della guerra e della perdita.
Lo stile con cui la Arraf porta sullo schermo la storia è secco, va dritto al sodo, senza alcun fronzolo linguistico ma puntando tutto sulla cura di costumi e scenografia, mostrando l’attenzione della regista per la costruzione interna dell’immagine. Molto interessanti e convincenti suono e fotografia, proprio perchè concorrono a costruire la presenza della guerra a partire dal fuori campo; tutto quello che riguarda il conflitto viene lasciato fuori da un punto di vista audiovisivo, per poi subentrare in modo auditivo e violento nella seconda parte e con i colori degli interni che cominciano a diventare scurissimi.
Quello di Suha Arraf è un cinema politico che sceglie di raccontare il dramma della guerra attraverso i corpi e gli spazi della vita comune, non i grandi eventi, ma le debolezze, le passioni e i sentimenti delle persone dilaniate da un conflitto.