venerdì, Novembre 22, 2024

Whiplash di Damien Chazelle: la recensione

Si dice che Charlie Parker diventò Bird quando Jo Jones, dopo un’esecuzione deludente, scagliò un piatto così vicino alla sua testa da sfiorare la decapitazione del sassofonista di Kansas City. Questo è il modello, insuperabile, di Terence Fletcher, inflessibile insegnante di musica del conservatorio Shaffer di Manhattan – istituzione di invenzione che ricorda la prestigiosa Julliard School del Lincoln Center. Andrew Neiman, batterista diciannovenne della middle class newyorchese, studia qui. Quando Fletcher lo arruola nel più ambito ensemble jazz della scuola, per Andrew si spalancheranno le porte dell’inferno.
Uscito nelle sale americane lo scorso ottobre – dopo un passaggio al Sundance e una gestazione piuttosto complicata (“uno dei migliori film non realizzati del 2012”) –, Whiplash, del regista e sceneggiatore trentenne Damien Chazelle, è diventato presto un caso. Il concept è, e si vede, quello di un corto – presentato con successo all’edizione 2013 del Sundance –, con un’idea forte, dilatata al punto giusto con l’inserimento di una serie di episodi che non fanno che rafforzare e replicare fino al parossismo il tema di fondo. Per lo script, Chazelle si è ispirato alla sua piuttosto tormentata esperienza nella Princeton High School Studio Band – stesso nome del complesso in cui suona Andrew. Il risultato è una produzione indipendente candidata agli Oscar e acclamata come uno dei migliori film sul mondo della musica degli ultimi tempi.

Ci sono almeno un paio di topos, tipicamente hollywoodiani, che Whiplash contempla e ridicolizza in un colpo solo. Il primo consiste nell’invariabile equazione fra sacrificio e successo, o caduta e catarsi che dir si voglia. Il secondo è l’abusato tema del rapporto fra maestro-allievo, nelle sue infinite varianti (ma, di solito, si passa dall’odio all’amore fra primo e secondo tempo). Di tutto questo buonismo, Whiplash vorrebbe essere una sorte di parodia adrenalinica e ad alto tasso di cinismo. E in gran parte ci riesce. Parte del merito va alle interpretazioni di J.K. Simmons – straordinario caratterista, già paragonato per cattiveria ed eloquenza verbale al sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket – e Miles Teller, talentuosa promessa a cavallo fra produzioni indipendenti (The spectacular now) e cinema mainstream (I fantastici quattro).

Whiplash mette in scena la lotta senza esclusione di colpi fra due personalità che, pur ambendo al medesimo risultato, si scontrano con ferocia e cattiveria. Con i suoi metodi didattici poco convenzionali – che includono ogni sfumatura dell’umiliazione e della sottomissione – Fletcher sogna di sfornare il suo Charlie Parker. Versando – letteralmente – sangue e sudore della fronte, Andrew aspira a diventare il migliore batterista della sua generazione. Spinto dalla crudeltà di Fletcher oltre i propri limiti fisici e mentali, Andrew diventa il batterista che sperava un giorno di poter essere, sacrificando con malcelato cinismo affetti e vita privata.

Sembra improbabile che la cattiveria spinta al parossismo abbia davvero un potere trasformante. Il merito di Whiplash è di riuscire a tenersi saldamente lontano da ogni afflato retorico, affidandosi a una partitura impeccabile che riserva colpi di scena in sequenza, fino a un’insospettabile conclusione che riesce a essere, al tempo stesso, la consacrazione di Andrew e il rovesciamento ironico di ogni conciliatoria catarsi. Con il suo montaggio vagamente ruffiano, gli spunti splatter e l’alternanza sapiente fra ritmi diversi – al rallentatore e ripresi con camera quasi fissa i momenti di vita privata, accelerate e nervose le scene in conservatorio –, il film di Chazelle riesce nel delicato compito di essere al tempo stesso estremamente elettrizzante ed estremamente angosciante.

Più che un film sulla musica e sull’ingrata esistenza degli artisti, Whiplash è uno spassoso thriller psicologico con tocchi da horror e liquidi corporei in abbondanza. Lontanissimo dallo spirito di zuccheroso bullismo di un Save The Last Dance, quanto da quello visionario e compiaciuto di un Black Swan, Whiplash non è nemmeno un omaggio a un artista, come lo era Bird di Eastwood, o a una cultura, come Round Midnight di Tavernier. Non c’è tanta nostalgia da queste parti. I personaggi sono tutti, ciascuno a suo modo, terribilmente sgradevoli. New York – riprese quasi tutte in interni o di notte –, è uno scenario necessario ma in fondo anonimo. Alla fine si ha il sospetto che perfino la musica centri poco o, meglio, che Whiplash non sia affatto un film sulla musica, malgrado l’ossessiva perizia e la precisione nervosa con la quale vengono riprodotte le esecuzioni (Whiplash e Caravan risentite decine di volte). Ma, nel frattempo, ci si diverte parecchio.

Sofia Bonicalzi
Sofia Bonicalzi
Sofia Bonicalzi è nata a Milano nel 1987. Laureatasi in filosofia nel 2009 è da sempre grande appassionata di cinema e di letteratura. Dal 2010, in seguito alla partecipazione a workshop e seminari, collabora con alcune testate on line.

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