Alias vive nella Tanzania ruarale, ha 15 anni ed è albino. Lo era anche suo padre, massacrato a colpi di machete e poi rivenduto pezzo per pezzo sui bancali di medici-stregoni felici di lucrare sulle superstizioni che attribuiscono qualità talismaniche e curative ai corpi dei neri dalla pelle bianca. Per sfuggire alle razzie il ragazzo è costretto ad abbandonare sua madre e la sua casa e per cercare protezione in città presso suo zio.
Qui verrà sfruttato per vendere chincaglieria ai semafori o per setacciare discariche in cerca di pezzi di ricambio, subirà lo strapotere della malavita in un contesto urbano ben poco civilizzato e verrà a contatto con la mesta rassegnazione delle comunità di accoglienza per ragazzi come lui. Eppure, attaccandosi alle parole della madre “Sii uomo, mangia poco e condividi sempre tutto”, saprà resistere alle sopraffazioni con caparbietà, anche grazie all’affetto della cugina Antoinette e al rapporto con un piccolo amico albino che dice di essere uno stregone.
Il filmmaker berlinese Noaz Deshe, finora perlopiù montatore e compositore, decide di esordire dietro la macchina da presa dopo un viaggio di lavoro in Tanzania, spinto dall’urgenza di raccontare la sconvolgnente e crudele realtà del commercio di membra umane per superstizione. Per immergere lo spettatore nel ribollente calderone di misticismi, violenza e miseria, Deshe si lascia andare ad uno stile ipercinetico, magmatico e visivamente violento. Alle scene in cui la storia si dipana, spesso notturne, esplicite, movimentate da sobbalzi della camera e sonoro sporco, iperrealista, si alternano momento di distensione e di fuga condotti dai due protagonisti albini, che divagano su desideri e fantasticherie e vengono accompagnati da viraggi psichedelici e inquadrature rurali dai forti connotati lirici.
Abbinato ad un approccio direttissimo alla materia brutale del soggetto, questo tipo di direzione conferisce al film un impatto epiderminco, un’energia superfiiciale estremamente efficace nel colpire l’occhio estraneo a quei luoghi e a quelle vicende. Le scene forti, i momenti stranianti, la violenza sensoriale di paesaggi si susseguono in una ripida discesa agli inferi (ma con un baluginio di luce nel finale) senza lasciare fiato, puntando ad un coinvolgimento da oscuro fuoco d’artificio o tambureggiante rito magico, che penalizza però l’entrata in sintonia con i personaggi e l’intreccio.
Il lavoro compiuto per conservare spontaneità nella recitazione di attori non professionisti ha ripagato in ogni caso Deshe con notevoli risultati, specie con i due ragazzi protagonisti, Hamis Bazili e Salum Abdallah, le cui forti fisionomie fanno da perno a primi piani irrequieti e di forte impatto emozionale. White Shadow è un’opera prima che lascia esplodere la forza incendiaria del proprio soggetto, sfoggiando una potenza visiva non indifferente ma a tratti confusionaria. In futuro vedremo se Deshe sarà in grado di canalizzare meglio questa energia, catalizzandola per dare forma più coerente e coinvolgente al racconto.