Con il suo consueto stile dialettico, Alex Gibney parte dalla vicenda Stuxnet, il malware ideato come operazione sotto copertura dalle divisioni informatico militari di Stati Uniti e Israele per attaccare l’impianto nucleare Iraniano di Natanz, e amplia il raggio di analisi politica interrogandosi sulla società dell’informazione globale come grande sistema di sorveglianza, il cui meccanismo rischia di diventare reversibile anche per chi lo ha progettato. Le suggestioni quindi non sono solo quelle di un crescente livello di perfezionamento delle azioni di cyberwar, ma riguardano anche il Diritto alla conoscenza, sottolineato ogni volta che le sue indagini vanno a sbattere contro il silenzio reiterato dei rappresentanti istituzionali, ed infine l’ipotesi di un controllo globale di tutti i dispositivi gestiti da un sistema informatico, dall’industria dei trasporti a quella della comunicazione.
Se c’è un aspetto che sembra non interessare le riflessioni di Gibney è il modo in cui questo sistema palindromo della sorveglianza che ben descrive come possibilità globale, possa riflettersi sulle forme di condivisione sociale che sperimentiamo ogni giorno nel rapporto individuale con una rete di dispositivi e interfacce. Partendo dalla stessa vicenda, Michael Mann con il suo Black Hat descriveva un tessuto complesso proprio nel processo continuo di risemantizzazione tra città elettrica e spazio digitale, dove i dati plasmano lo spazio.
Gibney è più interessato a portarsi a casa un risultato che individui la prassi del potere come un sistema impenetrabile e l’azione politica come disperata e frustrante ricerca della verità. Eppure, il limite di Zero Days è dello stesso tipo, un connubio tra “talking heads” e visualizzazioni grafiche raramente utilizzate a scopo dimostrativo, fino allo stratagemma di impiegare un’attrice per la parte testimoniale più importante, camuffata graficamente da un insieme di dati digitali. Da questo punto di vista Zero Days non aggiunge molto di più al resoconto esatto della vicenda Stuxnet, inventandosi soluzioni discutibili in mancanza di materiale vivo, tranne alcune ipotesi sul ruolo mobile di Israele nei rapporti tra Stati Uniti ed Iran, analisi che tra l’altro non ha niente di particolarmente originale. Sembra che Gibney, a differenza di altri film che gli hanno consentito di elaborare inchieste molto approfondite mantenendo la complessità del punto di vista, si trovi in questo caso sotto scacco rispetto all’impossibilità di ottenere informazioni chiare dagli attori coinvolti, costretti a mantenere un riserbo di massimo livello sulle modalità e le motivazioni che hanno spinto alla creazione di un sistema informatico così intrusivo nei confronti della sicurezza globale, quasi per raccontarci che lo stesso pericolo individuato nel potenziale nucleare di alcune nazioni, trova un corrispettivo nella proliferazione di un malware che può generare distruzione ad altri livelli più sotteranei e pervasivi. Ma il tema dello strumento di neutralizzazione del nemico, che diventa a sua volta e improvvisamente un nuovo possibile nemico interno, non viene sviluppato a sufficienza dal film, se non da un punto di vista didascalico, e chi guarda Zero Days si trova ad occupare una posizione non così diversa da quella di Gibney rispetto ad un potere silente che nega il diritto alla conoscenza.