Mentre Dheepan (Antonythasan Jesuthasan) cammina tra i cadaveri ammassati dei combattenti Tamil appoggiando le foglie di palma sulla pira funeraria, la giovane Yalini (Kalieaswari Srinivasan) cerca disperatamente una bambina senza genitori e si imbatte in Illayaal (Claudine Vinasithamby), nove anni. I tre assumeranno una nuova identità grazie ai passaporti di tre persone morte e salperanno dallo Sri Lanka alla volta della Francia per iniziare una nuova vita famigliare senza conoscersi.
Jacques Audiard sostituisce le immagini di un viaggio della speranza con alcune luci colorate che lampeggiano nella notte, potrebbero essere le imbarcazioni in arrivo ma non è così. Il salto è brusco e tra quei bagliori rallentati si materializza il volto di Dheepan incorniciato da una cuffia al neon mentre si sobbarca il peso di un piccolo espositore pieno di gadgets da vendere. Siamo già a Parigi e dopo questa breve parentesi ambulante, l’uomo dovrà rispondere alle domande dei servizi sociali per farsi assegnare l’appartamento di un nuovo complesso abitativo popolare, un segmento della Banlieue dove Yalini potrà lavorare per un vecchio infermo, alle dipendenze del nipote Brahim (Vincent Rottiers), boss di una gang locale dedita ai traffici illeciti.
Audiard sin da subito crea una sovrapposizione disturbante tra istituzioni e illegalità; il quartiere della Banlieue non è il carcere de Il Profeta, ma il meccanismo che mette in relazione i due mondi è lo stesso. Sono infatti i servizi sociali attraverso l’intermediario locale Youssouf (Marc Zinga) che creano le condizioni e istruiscono la giovane donna al rispetto di un confine: mentre questa accudisce l’anziano, non le è concesso di entrare nella stanza dove Brahim svolge i suoi affari se non con una serie di accorgimenti che non disturbino il contesto. Allo stesso tempo, la casa dove vive con Dheepan e la bambina è una finestra aperta sulla nuova zona di guerra delimitata dal cemento. Audiard ci mostra quasi sempre gli scontri cruenti tra gang dall’interno dell’abitazione, riproducendo quello stato d’assedio che assimila una zona dimenticata di Parigi con una qualsiasi terra resa instabile dagli orrori di un conflitto.
Illayaal che non si ambienta a scuola, Yalini che vorrebbe andarsene dalla Francia per raggiungere il cugino in Inghilterra e Dheepan ossessionato dalla violenza dei combattimenti che hanno scandito la sua esistenza, una tortura cognitiva che assimila il suo personaggio a quello di un reduce con la mente che non smette mai di riprodurre l’orrore assordante della guerra.
Se ne Il profeta la mutazione di Malik El Djebena aveva luogo nello scambio senza soluzione di continuità tra il dentro e il fuori, con i sogni a rappresentare la formazione di un’identità complessa, l’esterno della suburbia è in questo caso una prigione a cielo aperto che può essere superata solamente in uno stato di trance simile a quello onirico.
Non è semplicemente l’analogia tra l’elefante, il cervo e le orche marine di Un sapore di ruggine e ossa, animali tra libertà e cattività, quanto quell’improvviso trasformarsi dello scontro urbano nella tattica della guerriglia mentre si estende dalla geografia urbana ad una dimensione percettiva quasi aumentata. Quando Dheepan avanza da un palazzo all’altro penetrando nel condominio dove abita Brahim con l’incedere di un vendicatore, Audiard filma uno spazio iperreale che dall’inferno ci porta improvvisamente nel paradiso di un giardino londinese, un quarto stato meno esplicito a livello iconico rispetto all’immagine conclusiva de Il profeta, ma generato dallo stesso rituale di passaggio e sopratutto dove non è affatto chiaro quale sia il punto d’approdo tra il sogno e l’incubo per la qualità quasi palindroma di tutta l’ultima parte del film.
Al rovesciamento dell’iconografia socialista elaborata da Il profeta corrisponde in Dheepan un percorso di mutazione simile attraverso il quale poter giungere alla costituzione di una nuova identità famigliare. Fuori dal carcere e oltre i confini della Banlieue si delinea un nuovo spazio identitario tra la realtà e il desiderio di una nuova vita. Come nei film di Philippe Lioret (Welcome), Olivier Masset-Depasse (Illegal), Toledano e Nakache (Samba), ma anche le sorelle Coulin (17 ragazze) Audiard individua nell’organizzazione dello spazio urbano le contraddizioni della Francia contemporanea con un pessimismo più oscuro mitigato solamente dall’insopprimibile spinta individuale di libertà, contro le prigioni dello stato sociale. Lo scia di questa forza istintiva approda ad una conclusione che è solo apparentemente felice, perché la consueta dimensione del sogno, caratteristica costante nel cinema di Audiard, non ci consente di capire se la realtà è stata soppiantata dall’immagine del desiderio, emersa improvvisamente dal fumo denso e acre di un incubo di guerra.