Il brand Netflix domina prima dei titoli di testa. C’è già l’odore del serial, previsto per la diffusione sulla piattaforma a partire dal 2017. E il film di Sollima ha tutta l’aria dell’episodio pilota, in una contrazione estrema degli snodi narrativi che dagli ultimi giorni dell’impero fino all’apocalisse del 12 novembre 2011, disegnano già le traiettorie per una proliferazione di vendette incrociate.
Il PD, attraverso gli elogi di Mario Orfini, si è indirettamente appropriato del film identificandolo come disanima perfetta di una Roma che sta scomparendo e da cui occorre separarsi senza indugi, giusto per alludere alle dimissioni di Marino come ad uno spartiacque tra bene e male, secondo un principio non così distante dalla morfologia di una fiaba dei Grimm.
Se ci interessassero davvero queste forzature, sarebbe più stimolante descrivere la simmetria tra potere e sottosuolo criminale rappresentata in Suburra, come una relazione generazionale che cambia i propri metodi senza uscire dalla continuità dei fini. La fase conclusiva di un ventennio politico si porta dietro il crollo delle fondamenta corrotte, e se i rottamatori non si vedono, ad anticiparne l’ingresso sulla scena sono i giovani criminali che uccidono quelli vecchi, outsider come Viola (Greta Scarano) o inetti figli di papà come Sebastiano (Elio Germano), entrambi improvvisamente fuori da quelle logiche ma con l’idea di sostituire l’assenza totale di uno stato di diritto con l’unico codice acquisito, quello della vendetta.
Mancano ancora i referenti politici e chissà se Sollima avrà il coraggio di trovarli nella generazione ripulita che indossa gli abiti convenzionali della speranza, oppure al contrario si assicurerà nel fortino di un’invenzione mitopoietica legata alle figure di un romanzo criminale già nella dimensione del mito.
Al netto di una conclusione che fortunatamente non ci è sembrata troppo ottimista come si è immaginato Orfini, Suburra vive la contraddizione interna tra film di genere e instant movie senza che il primo riesca ad assolvere le funzioni antropologiche, oppure a descrivere il meccanismo dei rituali sociali in quanto dispositivo, anche logistico, come accade nel cinema nero di Scorsese o in quello di Michael Mann.
Al contrario, per far emergere questi aspetti, Sollima ha evidentemente bisogno di due cose; la prima è la confezione del film di genere come recinto espressivo, mentre la seconda punta sui segni di una scrittura troppo consapevolmente autoriale, con l’acqua che ribolle dal sottosuolo, Roma inquadrata al livello della rete fognaria, i cani trasformati in bestie dagli uomini e sopratutto, la centralità di tutti i segni del potere politico con il parlamento e le stanze vaticane che diventano vere e proprie didascalie, visibilissimi commenti a margine con lo scopo di indirizzare uno sguardo quasi sempre binario e mai stratificato.
Non siamo al livello del cinema caricaturale di Giuseppe Ferrara, tra l’altro recentemente tornato dietro la macchina da presa con l’accidentato Roma Nuda, prodromo storico di Suburra e di Romanzo Criminale, realizzato con quel gusto per la somiglianza simulacrale che Sollima evita quasi del tutto grazie ad un impianto narrativo più dinamico e allineato ai ritmi dei nuovi prodotti televisivi. Ma è proprio in questo innesto tra la pressione dei riferimenti e la tradizione di certo cinema italiano rivisto e corretto per l’esportazione, che Suburra ci sembra depotenziato e convenzionale nel suo voler essere prodotto a tutti i costi. L’occhio è alla fine quello enciclopedico e autoreferenziale di un cinema che guarda se stesso ad una distanza consapevole e scultorea che non deraglia mai anche quando si scopa, né si avvicina alle fragilità dei personaggi come succede nel film postumo di Claudio Caligari, così commuovente quando si sporca con la banalità quotidiana del sobborgo.