Il Norvegese Pal Sletaune è alla sua terza prova, e si è pure acchiappato il premio della settimana della critica a Cannes per il precedente Budbringeren, distribuito in italia dalla Mikado con il titolo di Posta Celere. Naboer a nostro avviso conferma quanto il cinema di Sletaune sia innocuo, nonostante le urla di piacere di stampa e pubblico durante le proiezioni a Venezia 62, per le Giornate degli autori.
E’ decisamente paradossale realizzare un noir sulla perdita, tracciandone i percorsi come se si trattasse di un rebus di quelli più prevedibili. John, mollato da Ingrid, accetta l’invito delle vicine di casa supersexy (Anne e Kim) ed entra in un gioco tra seduzione e massacro organizzato all’interno di un set-appartamento, mobile e inestricabile come il più temibile dei labirinti.
Se si escludono un paio di sequenze capaci di generare una discreta tensione pre-pornografica (Niente rispetto alla scena di “cannibalismo” nel bellissimo Seven Swords di Tsui Hark, visto fuori concorso a Venezia) Naboer confeziona senso e fascinazione nel levigare la scatolina-set il più possibile. Non è sufficiente un armadio, qualche crepa nel muro e una prevedibile commistione tra realtà e incubo da cui si esce e si entra senza i segni della mutazione, per scomodare il nome di Polansky.
Sletaune è abile con la macchina da presa ma non conosce la vertigine di un racconto che perde le coordinate della soggettiva; realizza un film cupo in superficie e non si perde nella psicogeografia del set. Ma quello che è più irritante, è il beffardo scherzo mnemonico che Naboer ha innescato per associazione del tutto personale; il film di Sletaune è una versione con note a margine di quel piccolo grande short movie che è Darkened Room di David Lynch. L’orrore, i corpi pieni di lividi, il divano, la stanza e le ragazze sembrano le stesse, ma il labirinto del film di lynch è una voragine cosi potente da rimanere fuori campo come specchio magico dell’immagine, increspatura Hockneyana.
L’orrore della Darkened Room Lynchiana viene cancellato, non è soggetto all’inganno dell’ipervisibilità, ma lascia una traccia terribile nel vuoto tra segno, immagine e suono. Correda l’arredamento Ikea del film di Sletaune la musica di Simon Boswell, veterano di tensioni dell’orribile (Bava, Argento, Richard Stanley) e una sequenza finale che funziona da sutura definitiva.