lunedì, Dicembre 23, 2024

Venezia 66: Celda 211 di Daniel Monzòn (Spagna 2009)

celda-211Basterebbe leggere il testo di Turco / D’elia intitolato “Tortura Democratica” per esaminare con rigore scientifico la materia complessa che il film di Daniel Monzòn vorrebbe affrontare. E tutto sommato ci si avvicina a quel rigore seppur con mezzi legati all’exploitation di massa e per certi versi discutibili; se in Italia si ipotizzasse un film sulle leggi speciali e sulla 41 bis, la percezione popolare sull’argomento si orienterebbe verso un’interpretazione emotiva e fuorviante che ne impedirebbe a priori la realizzazione come se si trattasse di un progetto impossibile e scellerato;  sono ancora in molti quelli che pensano alla risposta istituzionale arrivata in seguito alle stragi di mafia del 1992 come a qualcosa che sia impossibile e pericoloso discutere. Una giusta cura. Il film di Monzon mette in crisi proprio quest’idea di legalità, senza mezzi termini e dal punto di vista di un manipolo di assassini che non ha alcuna intenzione di pentirsi. Chiedono l’abolizione delle torture legate all’isolamento, condizioni migliori, la fine di un mattatoio legalizzato. Con i toni del cinema carcerario più lurido Celda 211 si presenta come un muscolare film di genere sviluppato con l’idea della mutazione del punto di vista. Durante una rivolta, un neo assunto dalla direzione del carcere si trova intrappolato in una cella, dovrà fingersi carcerato in una sarabanda di colpi di scena dove la relazione tra dentro e fuori ha i tratti di una lotta per la sopravvivenza che non permette più di distinguere chiaramente il ruolo e i confini della legge. Monzòn non è preoccupato di servirsi di un cinema alto e mira ai coglioni dello spettatore, introducendo alcuni elementi molto interessanti sull’uso dei mezzi di comunicazione. Tra archeologia e mass media, il film è disseminato di walkie talkie, informazione televisiva, videocamere di sorveglianza, si tratta di una percezione del reale che amplifica di volta in volta l’ambivalenza dell’informazione e ci mostra l’essere dentro come una condizione estrema, dove la visione dell’esterno è uno sguardo che ci viene restituito come un segno già organizzato. Senza scomodare Carpenter e pensando soprattutto al grande fratello old-style di Metropia (Venezia 66, settimana della critica), il film di Monzòn è al contrario del pretenzioso film Svedese una rappresentazione funzionale e cinematica (anche in un senso che si lega all’azione pura) dei confini mutanti dello spazio legale.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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