Il film dei fratelli Pang sull’occhio probabilmene più riuscito è Ab-normal Beauty, immagine che diventa dispositivo di reiterazione della morte, cinema come atto necrofilo che riesce davvero a far paura; una morbosità che pervade molte delle loro produzioni ma che trova la strada migliore quando i due fratelli si lasciano dietro l’allestimento del set concepito come un rutilante luna park. The Child’s Eye da un certo punto di vista non fa eccezione e tutte le ibridazioni mostruose che popolano l’hotel Tailandese dove i sei protagonisti si trovano imprigionati non ci è sembrato fossero un elemento di novità particolare; al contrario, quello che invece sorprende è l’uso del 3D sfruttato secondo alcune intuizioni molto lontane da ciò che siamo abituati a vedere.
Il montaggio di The Child’s Eye è ridotto al minimo a favore di un lavoro sulla durata che cambia le regole della percezione drammatica; alle dinamiche orizzontali del montaggio si sostituisce la profondità del piano sequenza osservata con un approccio assolutamente contemplativo e legato al collegamento dei piani nello spazio, un’evoluzione apparentemente banale ma essenziale per la visione tridimensionale, l’esatto opposto di un film come Toy Story 3D, sviluppato secondo una diegesi storico-cinematografica “classica” da rendere invisibile e neutrale l’uso del 3D in termini percettivi. E’ forse per questo che il film dei fratelli Pang, indicandoci una nuova abitudine visiva risulta spesso statico, difficile da assorbire e probabilmente ancora irrisolto in questa coraggiosa apertura di una nuova finestra, ma ci sono momenti in cui si ha la sensazione di essere di fronte ad una video-installazione o ad un esperimento sulla percezione che tenta di sviluppare un montaggio attivo e interno ai piani della sequenza senza suggerire all’occhio cosa vedere con l’autorità di un montaggio orientato.
Intendiamoci, non avevamo bisogno certo del 3D per affrontare la visione secondo delle coordinate più libere ed è probabile che alcuni dei film più tridimensionali della storia del cinema siano Stalker di Tarkowski o le proiezioni espanse di Jonas Mekas, ma tra le produzioni attuali che sfruttano la tecnologia stereoscopica ci è sembrato un film ipnotico, a tratti noioso e difficile da tollerare, ma proprio per questo, sfida interessantissima del linguaggio lanciata dall’occhio ancora vergine di un bimbo; non resta che scrutare senza pregiudizi.