Nell’ultima fatica di Wakamatsu Koji l’invettiva politica, che da sempre ha contraddistinto il suo cinema, si fa da parte. Gli oscuri e perversi intrecci fra eros e thanatos, basilari nella poetica dell’autore, vengono qui riformulati all’interno di uno struggente canto sull’assurdo della vita.
Il materiale di partenza è il libro di Kenji Nakagami, Mille anni di piacere (1982), ambientato in una microscopica comunità di burakumin, la casta di grado più basso nel sistema feudale giapponese (a cui lo stesso scrittore apparteneva), da sempre condannata all’emarginazione perché considerata impura e oppressa dall’ombra della morte. Al clima mitico in cui è immerso il romanzo di Nakagami, Wakamatsu associa un interesse peculiare per le iridescenze e le nostalgie della memoria di Oryu (una eccelsa Terajima Shinobu), la levatrice che, sul letto di morte, ripercorre, attraverso un lungo “dialogo” con la fotografia del defunto compagno, il monaco buddhista Reijo (Sano Shiro), le vite di alcuni discendenti della famiglia “nobile ma empia” dei Nakamoto, uomini bellissimi e dalle passioni sfrenate, perseguitati da una maledizione millenaria. Nell’incipit c’è già il senso di tutto il film: la mdp esplora una parete rocciosa e si sofferma su di una cavità che richiama il sesso femminile, il principio della vita, mentre si materializzano degli ideogrammi che narrano di una antica leggenda. Di seguito, viene mostrata la nascita di Hanzo Nakamoto (Kora Kengo) per mano Oryu e una breve dissolvenza ci porta al padre del neonato che sta accasciato contro un muro col ventre squarciato dalla lama dell’amante con cui aveva deciso di scappare. Davanti a lui c’è Reijo, pronto a preparare l’anima dell’uomo al trapasso. Le urla di dolore del parto si sovrappongono a quelle dell’agonia. E’ agli estremi delle parabole umane dei Nakamoto che si svolge l’esercizio di Oryu e Reijo, custodi di due fugaci attimi (origine e fine) tra loro opposti e inscritti dentro una ciclicità perenne. Tra i Nakamoto, ce ne sono tre a cui Oryu è legata in modo particolare (e che saranno i protagonisti della sua lunga rievocazione): il sensibile e passionale Hanzo, donnaiolo incallito che subirà il più duro dei castighi; l’esuberante sfaticato Miyoshi (Takaoka Sosuke), irrecuperabile tossicodipendente che arriverà addirittura a compiere un delitto; e per finire l’amabile e onesto Tatsuo (Sometani Shota, presente al Lido anche l’anno scorso con Himizu), a cui il destino, come agli altri due, non risparmierà una prematura fine. La loro è una pulsione di vita irrefrenabile che inesorabilmente si capovolge in feroce slancio autodistruttivo. Per Oryu, che ha dedicato l’esistenza a traghettare corpi dall’oscurità alla luce, l’incontrovertibile sorte riservata ai Nakamoto non è qualcosa che ostacola il suo soccorso premuroso, la sua fede nelle loro, seppur brevi, vite. Tramite lei, Wakamatsu scrive con le immagini una lirica sulla tragicità dell’esistenza che non si nutre di esplosioni patetiche, bensì di una rarefazione del sentimento drammatico verso un’accettazione armonica del mistero della vita e della morte. Un discorso che ricava il massimo della pregnanza dal minimalismo di una forma sempre più spoglia e depurata (messa in scena essenziale, fotografia di grado zero, commento musicale con il solo suono dello shamisen) che, fedelmente alla linea del recente cinema del maestro, trova ancora una volta il mezzo ideale nel digitale.