Fare cinema civile e, ancor più, cinema civile non documentaristico non è mai semplice. Lo sbadiglio dello spettatore è uno spauracchio tangibile e la determinazione di traslare sul grande schermo, adottando i linguaggi della fiction, la cronaca giudiziaria deve necessariamente moltiplicarsi per non scendere al compromesso del sensazionalismo d’intrattenimento, della gratificazione emotiva cheap, della retorica facile del buono e del giusto.
Emmanuelle Bercot, cineasta eclettica che da qualche tempo alla recitazione ha affiancato sceneggiatura e regia, si è, dunque, prefissa un compito arduo: rispolverare dalla storia recente la vicenda di Irène Frachon, una pneumologa francese in servizio a Brest, nella ventosa Bretagna, che nel 2007 scoprì la correlazione tra una serie di decessi per valvulopatie e l’assunzione di un farmaco, il Mediator, utilizzato nella cura del diabete e, in virtù di una molecola in grado di ridurre l’appetito, talvolta prescritto a pazienti in sovrappeso come coadiuvante nel processo di dimagrimento. La coraggiosa dottoressa, aiutata da un ricercatore, da una dottoranda, una giornalista e alcune autorità mediche, condusse un’estenuante battaglia legale contro la casa farmaceutica che distribuiva il medicinale alzando un vespaio mediatico senza eguali e ottenendo, infine, la messa al bando del farmaco killer, da oltre trent’anni regolarmente assunto dai cittadini francesi.
Si fosse trattato di un caso più tradizionale di malasanità, per la Bercot il problema del coinvolgimento emozionale non si sarebbe, forse, neanche posto, ma questo suo dramma-verità nelle sale in questi giorni di un febbraio affollato dai titoli candidati agli Oscar, affonda la lama nella materia difficile e poco indagata dal cinema di un’affaire farmacologica, la tossicità di certe sostanze abitualmente assunte, la leggerezza colpevole di medici superficiali e negligenti, il cinismo delle grandi industrie farmaceutiche che glissano su controindicazioni e sospetta virulenza dei principi chimici presenti nei loro impasti mortiferi. C’è, da una parte, in 150 milligrammi (titolo originale, La Fille de Brest) una vocazione alla denuncia e all’engagement e una coerenza estrema nel fare un film che, didascalicamente, segue l’ordinato succedersi degli eventi, con coordinate cronologiche precise e puntualità nei riferimenti, nella costruzione di un crescendo narrativo che accelera su un finale inaspettatamente toccante; ma, d’altra parte, l’ossatura dei fatti viene rimpolpata dall’identificazione empatica dello sguardo ammirato della regista colla tumultuosa personalità della sua protagonista, un’eroina affatto distaccata e affatto invulnerabile, dotata, però, di una sbalorditiva perseveranza e istrionica al limite dell’esondazione melò, interpretata con grande ispirazione da un’attrice danese di casa da tempo nel cinema d’Oltralpe, la straordinaria Sidse Babett Knudsen già apprezzata in La corte di Christian Vincent.
La Bercot segue la battaglia di Irène con partecipazione solidale, aprendo squarci sulla vita famigliare di questa pasionaria in camice bianco, madre di quattro figli e di moltissimi pazienti, accuditi, ascoltati, accarezzati, e lo fa con trasporto affascinato per un temperamento fuori dal comune, senz’altro encomiabile, ma anche eccessivo ed il rischio che si prende è, in fondo, proprio quello che il suo innamoramento non contagi lo spettatore, insensibile, chissà anche infastidito, dal piglio a tratti esagitato della donna. Succede spesso che si fallisca nel comunicare l’amore e che un personaggio adorato da chi lo porta in scena finisca per essere detestato da chi sulla scena vorrebbe, ma non può, appassionarsi alle sue rivendicazioni. 150 milligrammi è, in questo senso, un film perfettamente idiosincratico a cui, però, va riconosciuta la nobiltà degli intenti: la Bercot, figlia di un medico, voleva diventare lei stessa un medico e proprio alla fede incrollabile di un medico nella propria missione ha reso un omaggio sincero, colmo di vera gratitudine.