Come i “democristiani che non cambiano mai”, scomodati non a caso in una battuta di Io che amo solo te dal regista di Passione Sinistra, il cinema di Marco Ponti non rinnega certo la sua derivazione nazionalpopolare, più nella direzione di Alessandro Siani che in quella di Pippo Baudo, mettendo al centro quell’Italia cartolinesca che condivide lo stesso punto di vista di Si accettano Miracoli, Sei mai stata sulla luna di Genovese e Ma che Bella Sorpresa di Alessandro Genovesi, quest’ultimo per alcuni piccoli contrasti tra nord e sud che anche nel film di Ponti sembrano scritti e tagliati con il coltello del macellaio.
Al di là delle differenze tra i film citati, nessun problema da questo punto di vista perché al netto delle consuete approssimazioni, la commedia italiana sembrerebbe aver imboccato la via di una leggerezza formale in grado di giocare su gesti, registri e dettagli come la miglior scuola statunitense insegna. Niente di più falso in questo specifico caso perché “Io che amo solo te” è un film completamente imprigionato nella dinamica di piazza con il matrimonio a fare da microcosmo per il teatrino dei sentimenti, al di là del tentativo di demistificazione di tutto l’orpello scenico, talmente sottolineato da risultare più buonista della festa con centinaia di invitati. Per lo meno non c’è la terrazza in stile Scola a rappresentare il paese, ma di teatrino vecchio stampo comunque si tratta, dove la fedeltà coniugale e la libertà di seguire le proprie passioni viene sciorinata in uno scenario sociale fermo agli anni cinquanta, salvo aggiustare il tiro con il figlio gay che fa coming out durante la festa di matrimonio del fratello, probabilmente per accontentare quei democristiani che non cambiano mai, ma che hanno fatto buon viso a cattivo gioco nella casa del nuovo Partito Democratico.
Sarebbero dettagli di scarso interesse se ci fosse almeno una ventata di cinema in queste produzioni di stampo televisivo che ricordano più la coralità di “Un medico in famiglia” (chissà chi si ricorda le tristissime diatribe sulle coppie di fatto tra Lino Banfi, Agostino Saccà e l’Osservatore Romano) invece delle vivissime feste famigliari messe in scena da Jonathan Demme, ma sfortunatamente tocca citare un campionario scarsamente teorico di nefandezze come se fosse una zona grigia extra-digetica, perché è nell’interesse degli autori, con la scusa dell’aria fresca, neutralizzare qualsiasi discorso critico a favore di un racconto che dovrebbe scivolare via, per amore del dispositivo e della rappresentazione dei sentimenti, forse davvero “sorprendenti” quando Alessandra Amoroso “canta” se stessa e avvita il suo percorso con la vera sostanza dell’industria musicale odierna: la realtà aumentata e globale del palcoscenico parrocchiale. Dovrebbe si diceva, ma abbiamo dormito in sala, colti da un torpore irresistibile di fronte alle dinamiche senza ritmo tra Michele Placido e Maria Pia Calzone che si guardano in chiesa con una passione sepolta da decenni mentre la moglie “soprammobile” del patriarca osserva divorata dalla gelosia e dal dolore, i figli si cornificano a vicenda prima di sposarsi e mentre l’amore infine trionfa con la promessa di un viaggio a Barletta, pur non toccando il fondo della Bollywood in costiera dell’ultimo film di Siani, il cinema sprofonda in un buco nero fatto di situazioni, inquadrature, punti di vista e messa in scena dove tutto è perfettamente in campo e continuamente sottolineato da una didascalia gigantesca che occupa l’intero film: quella del quadretto. Che non vi venga in mente di buttare via la cornice, non rimarrebbe niente.