Andrew Haigh torna ad osservare le tracce del sentimento amoroso, ma la tenerezza giovanile di “Weekend” è solo un residuo senile nel breve racconto di David Constantine da cui è tratto “45 years“.
Sullo sfondo della campagna britannica fotografata da Lol Crawley, Kate (Charlotte Rampling) e Geoff (Tom Courtenay) programmano la festa per i 45 anni del loro matrimonio senza che il pensiero per i preparativi modifichi i tempi rituali del quotidiano. Solamente un enigmatico segno dal passato renderà evidente l’incrinatura di una superficie apparentemente sempre uguale a se stessa.
Il corpo congelato di Katya, una vecchia fiamma di Geoff, viene ritrovato cinquanta anni dopo una fatale caduta sulle alpi svizzere. La lettera è una testimonianza che Haigh lascia sospesa, una rivelazione inquietante che in qualche modo agisce ancora sulla vita della coppia impostando l’atmosfera di tutto il film, interamente concepito sulla distanza raggelata tra l’ambiente e i corpi dei suoi attori, figure nel paesaggio come ne “L’australiano”di Skolimowski o in “Images” di Altman, dove in questo caso il soprannaturale viene sostituito da un’astrazione del tempo che orienta il realismo degli ambienti e di alcune scelte, come l’utilizzo di musica e suoni esclusivamente diegetici, in una direzione sottilmente espressionista.
Kate e Geoff sembrano già morti, ibernati come il cadavere di Katya, in una relazione spenta e senza più forza emotiva che rivela alcuni attimi di tenerezza come momenti di consapevolezza della propria estinzione; il tentativo fallito di fare l’amore o il pianto di Geoff durante le celebrazioni dell’anniversario, vengono rappresentati come osservazione sulla propria fragilità rispetto all’inesorabilità terrifica del tempo.
Haigh dimostra grande capacità di controllo nella scultura temporale delle sequenze, tra tutte, quella dove Kate suona il piano da sola in una perturbante relazione con il vuoto più che con la passione interpretativa, segno di quella sovrapposizione tra morte e natura che attraversa tutto il film nella reinvenzione di luoghi e spazi che per tono e colore sembrano assimilarsi a quelli di uno sguardo metafisico svuotato da qualsiasi tensione salvifica.
Se allora il registra britannico sembra sovrapporre distanza e vicinanza a queste due figure crepuscolari, con un rigore quasi luterano che per accumulo, diventa improvvisamente impudico, il suo sguardo non ha mai la freddezza di un’osservazione chirurgica grazie anche al coraggio con cui libera da questa gabbia emotiva e personale, sedimentata nel tempo della memoria, le splendide interpretazioni della Rampling e di Courtenay, entrambi capaci, insieme alle intuizioni visive dello stesso Haigh, di generare uno scarto improvviso e di aprire l’abisso con un cambiamento di tono, un movimento impercettibile, uno sguardo nel vuoto.