domenica, Novembre 17, 2024

Il cinema di Sebastián Lelio

Con El Año del Tigre prende forma concreta, nell’insorgere drammatico dell’evento naturale, quello che Lelio definisce “cinema dell’instabilità, fra documentario e finzione, un cinema tellurico, un qualcosa di organico, di instabile”.
Un passo della prima lettera di S. Paolo ai Corinzi scorre sulla sequenza carceraria iniziale: Ecco, io vi dico un mistero:non tutti morremo, ma tutti saremo mutati in un momento, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba.
Deliberatamente ellittico, cinema documentario che scruta territori nascosti della psiche e rende visibile il mondo senza bisogno di raccontarlo, apre sipari metaforici dentro la cornice dello schermo. La quasi totale assenza di dialoghi dà alla vicenda reale i tratti essenziali di un’opera fantastica.Il linguaggio è corporeo, ed è quello pesante, traballante, come privo di baricentro di Manuel (Luis Dubò) evaso dalla prigione e poi tornato dentro, spontaneamente, come tanti, perché la libertà può anche diventare insostenibile e il mondo esterno essere una prigione perfino più dura.
Al grado zero della condizione umana, ridotto a nulla come il suo habitat, povero un tempo e ora cumulo di macerie che hanno sepolto moglie e figlia restituendogli solo il cadavere della vecchia madre, Manuel è spesso ripreso di spalle, mentre corre o cammina. Girato sui luoghi del sisma, a poche settimane dalla tragedia, è un film gonfio di un profondo dolore trattenuto, come stupefatto, mentre da reportage documentaristico diventa sguardo che tallona il vagare disperato dell’uomo.
La natura, cuore pulsante della vita, flusso, movimento, qui diventa cicatrice che deturpa, e l’apparire della tigre perde ogni carattere di spettacolarità per divenire epifania di pietosa partecipazione allo stesso destino dell’uomo.

“… lo tsunami si era abbattuto su di un circo di provincia, trascinando ovunque gli animali, fra questi una tigre che riuscì a fuggire, ma venne uccisa per difesa in un territorio totalmente sconquassato dalla natura”.

Film di lancinante nudità, sovversivo nella sua essenzialità, lascia nello spettatore la scia sonora di quel Camino de Caná che a tratti risuona, un canto di parrocchia e funzioni religiose che  torna ad essere quel “… canto dell’esilio e della resistenza di origine ebraica, adottato dagli schiavi di origine afroamericana- spiega il regista – Credo che la canzone connetta con il sentimento del film che è quello di muoversi in cammino verso qualcosa che non si sa cosa sia, ma che sappiamo essere migliore. È una specie di supplica lamentosa che mi pare si innesti alla perfezione con lo spirito del film.”.

Ultimo lavoro di Lelio è la storia di Gloria, ( recensito da Berlino qui su indie-eye.it ) un corpo in rivolta, una solitudine negata ma infine accolta come segno di indipendenza. Gloria si smarca dalle logiche che regolano i rapporti sociali e va oltre convenzioni e tabù, prova a rinegoziare con la vita un’armonia perduta, subisce lo scacco e decide, sceglie. Come Marco, Aurora, Alejandro, Alicia e Manuel.
Gloria è  soprattutto una donna di Santiago, città sempre protagonista nel cinema cileno. Anche quando è fuori campo, si avverte come spazio non indifferente alle sorti dei suoi abitanti, placenta che ne avvolge le vicende individuali su cui storia e natura si abbattono con le loro  tempeste.
La volontà di conquistare una dimensione esclusivamente umana dell’esistenza è il tratto distintivo di personaggi, come questa donna, che hanno imparato, con sofferenza, a dominare i propri errori, a non venirne schiacciati, e ora proseguono il cammino con tenacia. Un cammino solitario, lo stesso per tutti i personaggi di Lelio, giovani e no, un andare ad occhi aperti fra le secche della vita.
Il cinema di Lelio, quali che siano i personaggi messi in scena, la loro vita, le scelte che fanno, da qualsiasi parte provengano e al di là delle differenze di età, sesso e condizione sociale, porta in sè quel tratto che Deleuze indicava come specifico del cinema, la sua “attitudine inaspettata a manifestare, non il comportamento, ma la vita spirituale (come pure i comportamenti aberranti). La vita spirituale non è il sogno né il fantasma, che sono sempre stati un vicolo cieco per il cinema, ma il dominio della decisione fredda, della caparbietà assoluta, della scelta dell’esistenza.”

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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