Home festivalcinema 57/mo Festival dei Popoli: Ama-san di Cláudia Varejão – la recensione


57/mo Festival dei Popoli: Ama-san di Cláudia Varejão – la recensione


Si dice che le Ama, le pescatrici giapponesi che praticano la pesca di frutti di mare secondo una tradizione lunga duemila anni, siano capaci di immergersi in apnea fino a venti metri di profondità.

Raggiungono il fondo del mare trattenendo il respiro per catturare ricci di mare e abaloni, in passato anche perle. Una sfida quotidiana ai pericoli dell’oceano che ha creato nel tempo una mitologia intorno a queste donne fuori da ogni convenzione sociale, economicamente indipendenti e libere nei costumi, che nuotavano nude in un vero e proprio rapporto simbiotico con l’acqua, come testimoniano gli scatti in bianco e nero di Fosco Maraini.

Era il 1954 e le ‘donne del mare’ si immergevano senz’altra strumentazione tecnica che la maschera e un lungo pugnale ricurvo per staccare i molluschi dai fondali. Dieci anni dopo inizieranno ad indossare una muta, per schermare la propria nudità di fronte a un numero sempre maggiore di turisti che a quelle coste remote affluivano, ma non per questo il loro rapporto con il mare sembra essere cambiato.

Se le Ama immortalate da Maraini esprimevano soprattutto la sensualità di corpi torniti avvolti solo dal tradizionale fundoshi, le moderne pescatrici della Varejão sono portatrici di una grazia che sembra irradiarsi all’ambiente che le circonda, come se fosse il loro stesso lavoro a mantenere la pace del mondo che abitano, a dipendere dalla precisa piegatura del panno bianco con i timbri protettivi dei templi che si avvolgono intorno al capo con rito shintoista.

E’ col respiro lento del mare che lo sguardo della regista ci consente di seguire le preghiere che precedono le immersioni, tuffarci in una foresta di alghe marine, scaldarci al fuoco di una capanna tradizionale, propiziare un esito fortunato per le uscite in barca.

Non fosse per la radio che parla di Taylor Swift, le auto e la fugace apparizione di un telefono cellulare potremmo dubitare di stare assistendo a una vicenda che si svolge nell’anno 2016. 
Il Giappone che ammiriamo sullo schermo esprime tutta la poesia zen di un mondo dove i bambini giocano ancora con le lucciole e le stelle filanti luminose, invece che con i videogiochi e i gesti che accompagnano la vita quotidiana delle persone si attengono a umili e rigorosi rituali.

Il documentario è il risultato di un lavoro lungo due anni, che ha portato la regista a spostarsi tra i vari villaggi del Giappone dove ancora viene praticata questa attività tradizionale. Il risultato è una testimonianza preziosa che fissa il ritratto di donne fiere, in costante sfida con se stesse, capaci di esprimere una forza ancestrale senza mai perdere la bellezza di gesti delicati e solidamente femminili.

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