David Bowie come fantasma, non morto, alieno, vampiro. Una vulgata suggestiva sulla quale siamo tornati lateralmente a più riprese, se non evitandola preferendole comunque altri aspetti, come la denigrazione dello sguardo o la prassi del defacement che attraversa tutta la carriera dell’artista inglese e in modo più articolato, la relazione ciclica tra segreto e rivelazione, visibile e invisibile, quella che da vita al racconto (Bowiano) e poi lo apre alla libertà di altri mondi, tutti dipendenti dal soggetto.
L’Homme Cent Visages ou Le Fantome d’Hérouville, il documentario “assemblato” da Gaëtan Chataigner e Christophe Conte , si apre proprio con questo assunto: “David Bowie est un fantôme”
Al centro la doppia visita di Bowie allo Château d’Hérouville, costruzione del diciottesimo secolo situata ad Hérouville, nella Val d’Oise a circa 45 km da Parigi e acquisita da Michel Magne, compositore di numerose colonne sonore, alcune delle quali registrate proprio nello studio polivalente che il musicista francese ricaverà da questi ambienti a partire dal 1962.
Aleggia lo spirito di un altro fantasma quindi, quello dello stesso Magne, morto suicida nel 1984, un anno prima che lo Château chiudesse. Evocato dalle testimonianze di Laurent Thibault, padre del progressive rock francese e talentuoso tecnico del suono, in attività al Castello per circa undici anni dove registrerà insieme a musicisti come T-Rex, Marvin Gaye, Hawkwind, Alice Cooper, Popol Vuh e David Bowie, solo per citarne alcuni.
Il passaggio di Bowie in quei luoghi si verifica due volte, la prima nel 1973 per la registrazione di Pin Ups, dove tra le altre cose campionerà i suoni del concerto Branderburghese di Bach N. 3 e un breve sample da Also Sprach Zarathustra di Strauss inclusi nella sua versione di See Emily Play, la cover dei Pink Floyd inclusa nell’album.
Il tentativo di Gaëtan Chataigner e Christophe Conte è quello di stabilire una connessione ideale tra l’ansia di sperimentazione bowiana e l’aria che si respirava allo Château, grazie allo spirito di ricerca infuso da tutte le scelte di Magne, affascinato dalla nascente elettronica e tra i primi ad utilizzare le Onde Martenot, sopratutto per i suoi lavori fuori dal contesto televisivo e cinematografico, come il seminale Music Tachiste (1959), tracce di un artista che si avvicinava alle forme ludiche di Raymond Scott, sopratutto con l’interesse per certi esotismi e per alcune poliritmie africane (Tropical Fantasy del 1962 ne è un esempio fulgido) ma in una forma più contemporaneista e vicina alle istanze del neo dadaismo.
L’esperienza e la passione per il cinema da parte di Magne emerge in forma libera e selvaggia nei suoi lavori più sperimentali fatti di rumori, suoni e ritmi della natura, frammenti di musique concrète. Questi vanno in qualche modo ad influenzare l’arte dei numerosi musicisti rock che si avvicinano allo Château. Thibault diventa in un certo senso mentore ed esecutore di quello spirito e Bowie attinge, trovando delle coincidenze stimolanti in due periodi molto diversi della sua carriera, nel 1973 come dicevamo, per definire i suoni di un album ingiustamente sottovalutato come Pin Ups, tavolozza di brani “sicuri” da trasfigurare, adattissimi alla sperimentazione; successivamente nel 1976 per la lavorazione di Low insieme a Tony Visconti e Brian Eno.
Una suggestione di cui non si parla approfonditamente nel documentario è quella della sintesi audiovisuale a cui buona parte della musica di Magne tende, proprio nel 1976 il musicista francese inciderà un album oscuro intitolato “L’interdit”, influenzato da Camus ed eseguito con un ensamble da camera, tra alienazione e sogno, sperimentazione microtonale e sospensioni temporali, un po’ come farà Bowie sulla carcassa del rock con i suoi “quadri visuali” tra Sound And Vision, assimilando altri stimoli e consegnandoci un esempio di musica algida e isolazionista.
Gaëtan Chataigner e Christophe Conte sfiorano solo in superficie questi aspetti e preferiscono lavorare con la leggenda Bowie, mettendo in contrasto gli ambienti svuotati e spettrali dello Château con alcune immagini di repertorio che appartengono ad una documentazione già vista, tra cui il seminale Cracked Actor prodotto dalla BCC e la partecipazione di Bowie al Dick Cavett Show nel 1974, documento successivo al primo passaggio del nostro nella Val d’Oise e primo segno esplicito di quel Plastic Soul che da Diamond Dogs ci condurrà verso Young Americans, con Ava Cherry degli Astronettes (la Cherry, Geoff MacCormack aka “Warren Peace” e Jason Guess) che a un certo punto ruba la scena al Thin White Duke, posseduta dal fuoco diabolico della danza.
In questo senso il punto debole del lavoro di Chataigner/Conte è la confezione televisiva tra “talking heads” e materiale d’archivio facilmente reperibile nelle piattaforme di condivisione digitale senza lasciare il segno di una vera e propria ricerca documentale. Sospeso tra il parziale omaggio retrospettivo e la testimonianza del doppio passaggio francese di Bowie, il lavoro di Gaëtan Chataigner e Christophe Conte scivola lentamente nella celebrazione di una liturgia francofona consumata nelle stanze vuote del castello, con le esibizioni musicali di Lou Doillon, Mathieu Saikaly, Moodoïd, per citarne alcuni, nello stile dei vecchi Scopitone francesi filmati open air da autori come Claude Lelouch, con tanto di ballerine vintage che abbelliscono gli interventi. C’è in questi numeri il senso dell’erranza e quell’assenza di gravità che dialoga con le immagini filmate da Malcolm J. Thomson nel 1969 per il lungo promo intitolato “Love you till tuesday” dove è inclusa la prima versione di Space Oddity; una relazione con il vuoto che rappresenta l’aspetto più vivo del lavoro dei due documentaristi francesi, mentre passato e presente si sovrappongono negli ambienti dello Château.
Tra fresca e libera ingenuità, aspetto positivamente pop, e una certa cialtronaggine, L’Homme Cent Visages ou Le Fantome d’Hérouville allude alla fantasmaticità del corpo eccentrico Bowie riferendosi in prima istanza a quello che già si sapeva, ovvero le fobie del nostro sperimentate durante la notte nella camera che originariamene avrebbe dovuto occupare allo Château, dove si sarebbero manifestati i fantasmi di George Sand e Frédéric Chopin, per poi raccontare Bowie stesso come fantasma, attraverso la qualità immateriale della sua immagine, sopratutto quella concepita dal 2003 in poi, l’anno di pubblicazione di Reality dove l’artista inglese compare come avatar nell’artwork ideato da Jonathan Barnbrook.
L’arte dello scomparire diventa qualità e possibilità di rimediazione del segno stesso; costellazione biografica, come nella Blackstar di Frank Stella e allo stesso tempo, linguaggio aperto e pre-semantico. Spiace che nelle stanze dello Château non si siano evocati i fantasmi di Magne e di Bowie con maggiore forza visionaria, forse per una mancanza cronica di materiali d’archivio, forse per quella scarsa volontà di ricerca che attraversa molti documentari musicali coevi, confezionati velocemente e attraversati da una pigrizia combinatoria alla base di certa informazione liquida.
La realizzazione del documentario definitivo su Bowie sembra davvero un miraggio, forse in virtù di quell’immaterialità di cui parlano gli stessi Chataigner e Conte che dovrebbe spingere a fermarsi a lungo, in termini di ricerca, solo su un pezzo della “stella”. Il già citato lavoro di Alan Yentob, quello meno conosciuto di Gerry Troyna e il commento dello stesso Bowie su “Resurrecting Stanley”, la produzione BBC/Omnibus dedicata all’arte di Stanley Spencer, sono tre “testi” diversissimi, parziali, incompleti, ma assolutamente vivi nel cogliere un percorso nel suo (dis)farsi, dall’immagine alla voce. In questo senso rimangono quelli che preferiamo.