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7 Minuti di Michele Placido: la recensione

Michele Placido porta sullo schermo il fortunato testo teatrale di Stefano Massini dirigendo uno straordinario cast femminile. Il film è stato accompagnato da una lunghissima standing ovation alla proiezione in anteprima della Festa del Cinema di Roma

L’errore più grande che si potrebbe fare di fronte al nuovo film di Michele Placido è pensare che non ci riguarda.

Sette minuti non è un film sulla provincia industriale che urla la sua progressiva desertificazione da tutti i servizi di telegiornale, tra picchetti di operai, scioperi e chiusure di fabbriche, bensì un racconto sulla paura e sul recupero della propria capacità di opporvi argine e coesione.

La sceneggiatura di Stefano Massini e Michele Placido si innesta sul disfacimento di un mondo che ha conosciuto il lavoro e l’orgoglio del lavoro per lasciare il posto ad equilibri friabili, dove non fa più notizia l’ennesima azienda modello che viene venduta ad un colosso straniero.

Venduta fingendo che a decidere il destino di 300 operaie sia un teatrino di sorrisi e boutade che ha come unica spettatrice la rappresentante più anziana del consiglio di fabbrica, mentre quello che conta è già stato deliberato e scritto nero su bianco. Altrove. Lontano dallo sguardo solido di Bianca, un’Ottavia Piccolo che ci regala un’interpretazione larga una generazione, Bianca che non dimentica nemmeno per un istante di non far parte della giostra dei potenti che si passano in consegna macchinari, persone e altre voci d’inventario.

E dopo una straziante attesa della notizia peggiore, la perdita del lavoro e l’aggravamento di situazioni familiari già vulnerate, ecco l’annuncio: i contratti sono salvi, o quasi.

Stefano Massini si è ispirato a La parola ai giurati di Sidney Lumet per la trasposizione drammaturgica di un fatto di cronaca che nel 2012 ha visto le operaie tessili di un’azienda francese battersi per i propri diritti contro la nuova proprietà.

Quel che ne risulta è un thriller psicologico che non lascia scampo e costringe ogni istante a decidere della propria identificazione, a chiedersi dove tracciare il confine invalicabile della propria dignità di persona.

Sul tavolo della trattativa una clausola, una soltanto, tanto lieve da strappar quasi un sorriso a chi per ore ha atteso un responso sul proprio destino in uno scomparto di capannone scarno quanto le prospettive che gli si sono parate davanti: sette minuti di tempo lavoro in più, nient’altro che una clausola da accettare velocemente, una formalità per sancire la gratitudine di chi può lasciarsi alle spalle un incubo e sopravvivere in una desolazione di capannoni serrati.

Sembra impossibile dubitare dell’esito della votazione del consiglio di fabbrica e invece un dubbio c’è e nasce in seno alla vecchia guardia, quella che ha conosciuto una diversa consistenza dei diritti e che comprende come la posta in gioco potrebbe essere molto più alta di quel che appare a prima vista.

Ecco allora che nel confronto tra undici donne che non potrebbero essere più diverse tra loro, il dubbio cresce fino a diventare coscienza, riflessione, azione.

Perché anche di fronte alla massiva erosione di uno spazio di certezza su cui costruire la vita si può ancora pensare di poter fare qualcosa. Tanto più di fronte a questa erosione perché, come diceva Don Milani, ‘il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia.’

 

 

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