Gilles Lellouche, descritto spesso come “attore che si è convertito alla regia” ha in realtà cominciato senza troppa convinzione proprio dietro la macchina da presa. La recitazione ha occupato gran parte della sua carriera, ma questo ” Le grand bain” è in realtà il suo secondo lungometraggio a distanza di quattordici anni da “Narco”, la commedia interpretata da un “narcolettico” Guillaume Canet. Come in quel film, torna a lavorare sugli stereotipi della cultura maschile, per ridicolizzarne le attitudini e le posture. Il film lo scrive insieme a Ahmed Hamidi e Julien Lambroschini, coinvolgendo gli “amici” di sempre, Guillaume Canet e Benoît Poelvoorde, insieme ad un cast di altissimo livello che punta, oltre ai già citati, sulle performance di Mathieu Amalric e Jean-Hugues Anglade. Il plot, oltre ad esser legato da più di un riferimento al recente “Swimming with men” diretto da Oliver Parker, strizza l’occhio ad altre commedie britanniche degli anni novanta, costruite intorno ad un gruppo di uomini sull’orlo di un collasso nervoso, costretti a forzare la cornice della loro mascolinità proletaria. Dagli inoccupati spogliarellisti di Full Monthy ai quattro francesi sgangherati che decidono di riscattarsi partecipando al campionato mondiale di nuoto sincronizzato maschile. Lellouche ha dichiarato a più riprese di essere interessato al generale clima di depressione che attraversa la Francia e alla possibilità di rilanciare le proprie energie attraverso una ragione diversa per vivere, che non sia quella della bolla economica legata al benessere.
Su questo contrasto l’attore-regista francese costruisce tutta l’improbabile avventura di quattro individui tra i 30 e i 50 anni che cercano di riqualificare le proprie vite, proprio a partire dalle insormontabili incompetenze. Depressi, fuori forma, senza speranza si mettono nelle mani della brutale Delphine (Virginie Efira), l’allenatrice della squadra.
Lellouche accentua quindi la goffaggine dei personaggi, cerca di strappare la risata o la prossimità empatica attraverso l’impiego di un realismo insistito, in bilico tra compiacimento e artificio, per poi puntare tutto sulla puerilità delle situazioni, come se non trovasse sufficiente forza nel materiale umano a sua disposizione. La derivazione fumettistica che costituiva la narrazione esplicita di Narco, non è meno evidente in “7 uomini a mollo“, nonostante non se ne dichiari la fonte e procede inesorabile verso un crescendo esplosivo, a partire dall’entrata in scena di Amanda (Leïla Bekhti), l’allenatrice che li preparerà per i campionati. Una formula già scritta che lascia un piccolo margine di improvvisazione ad un gruppo di attori comunque straordinari, costretti a rimanere in apnea per quasi tutta la durata del film. La turbolenta parte conclusiva conferma questa sensazione; necessaria e inevitabile, è il risultato di un cinema dal respiro cortissimo, impegnato nel rincorrere il successo con l’applicazione di uno schema apparentemente collaudato, ma che rischia di franare in ogni momento tanto è consunto. “7 uomini a mollo” è più depresso dei suoi protagonisti, cerca un’occasione di riscatto a tutti i costi e affonda nella dimensione cinematografica peggiore, quella dell’esperienza ricreata per tracciare il simulacro di un sentimento.