[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#ffd500″ class=”” size=””]Sinossi: La saga di una famiglia, quella di João Fernandes (Albano Jerónimo), carismatico proprietario (una specie di “principe anarchico e progressista, bigger than life”) di una delle più grandi tenute d’Europa, sulla riva sud del fiume Tago, A Herdade è allo stesso tempo un grande affresco del Portogallo nella seconda metà del ventesimo secolo, un film epico con personaggi forti, intensi ed enigmatici.[/perfectpullquote]
Il difetto di A Herdade risiede nella sopravvalutazione della propria capacità di costruire l’epicità. Il film di Tiago Guedes racconta infatti una storia con tutte le caratteristiche dell’epica famigliare – un’epopea micro-domestica divisa in tre atti e slanciata dalla vertiginosa aderenza con la macroscopia di una nazione, quella portoghese – ma non riesce mai a infondere un senso grandioso alla materia che racconta, ai paesaggi che descrive e ai personaggi che disegna nel corso di tre ore.
Il tonfo del suo progetto è grande perché direttamente proporzionale alle sue ambizioni ed è motivato da una serie di errori, relativi proprio alla costruzione dell’epica, ingigantiti per la stessa dinamica strutturale. Il film esilia in primis la narrazione in un dominio territoriale distaccato dal centro politico della città e a sorpresa, se non per un unico momento, rinuncia alla sponda metaforica perfetta per amplificare le sfumature psicologiche (private) su una scala politica (pubblica); costringe quindi i personaggi – e gli attori- a occupare con le loro azioni – e le loro economie interpretative – spazi vastissimi che inevitabilmente si comprimono contro la loro libertà e la genuinità: per colmare la virtuale camera della gigantografia calcano le proprie caratteristiche fino al parossismo e giocano una partita alla personalità più forte che toglie sfumature all’organigramma gerarchico degli affetti.
Guedes poi cerca classicità visiva e un impianto solido ma non è in grado di esplicare le psicologie dal loro rapporto con lo spazio (se non in una sola intuitiva dissolvenza incrociata) e nemmeno di dare corpo alle fascinazioni che potrebbero risiedere sotto tutte le pigrizie compositive – come il desiderio meta testuale che la sua storia sia interminabile.
Il risultato è un’epopea senza epica, una storia gigantesca con la forza di un aneddoto dimenticabile.