«Hang me, oh hang me» canta Llewyn Davis. Un classico della tradizione folk americana, recuperato dai Coen per connotarlo, in una sorta di risemantizzazione, di una nuova efficacia espressiva, una nuova funzione narratologica. La canzone acquista così un funzione indiziale da cui partire prima di inabissarsi nel surreale mondo di Davis.
Non sarà difficile, per chi già avvezzo alla poetica dei Coen, individuare nel testo della ballata un rimando a quelle radici ebraiche e a quel tormento esistenzialista che costella l’esistenza dei personaggi di opere precedenti.
«Ho girato tutto il mondo. Sono salito su una montagna e lì ho fatto resistenza. Ma ora mi impiccheranno» recita il testo della canzone. Llewyn Davis è l’estrema incarnazione del popolo ebraico, costretto a vagare, sradicato dalle sue radici, dalla sua casa, senza una dimora fissa. Così come il popolo migrante vagò nel deserto, Davis vaga tra le strade del Greenwich Village, fino ad un grottesco on the road verso Chicago. Riposando sui divani di svariati appartamenti, facendo autostop e scroccando sigarette, è l’efficace rappresentazione di un uomo costretto ad una reiterazione senza fine e senza scopo. Una ciclicità senza via di scampo è quello a cui è condannato Davis, come l’umanità tutta, nella pessimistica visione dei fratelli Coen. Una impasse nell’infruttuosa esistenza che acquista però nuovo senso nella ciclicità della struttura narrativa, in cui il finale viene a coincidere con l’inizio. Se infatti l’episodio iniziale, che vede come antagonista un violento e misterioso uomo delle tenebre, risulta enigmatico per lo spettatore – come presumibilmente anche per Davis –, nel finale esso acquista senso, giungendo come motivato castigo ad una colpa che in effetti egli ha.
Ecco quindi che l’esistenzialismo si tramuta in determinismo. Su questa terra nessuno è innocente, tutti abbiamo le nostre colpe e siamo costretti a pagarne lo scotto, sembrano dire i fratelli Coen. Una visione nichilistica dal retrogusto mistico, tra peccato originale e libero arbitrio.
Un’analisi che trova conferma negli impliciti rimandi ad atmosfere kafkiane, in cui si inquadrano il grottesco viaggio con Roland Turner (John Goodman) e l’indolente Johnny Five (Garrett Hedlund), oggetto, quest’ultimo, di un insensato arresto in un’atmosfera alquanto onirica, espressionista. Ma ancor di più, la storia di Davis non può non ricordare le vicissitudini dello scrittore protagonista del romanzo Fame di Knut Hamsun. Come il Llewyn Davis dei Coen, questa sorta di alterego dello stesso Hamsun, è un uomo che vive del suo intelletto, delle sue prestazioni artistiche e che, nella cupa Christiania, arranca nel reperire ingaggi, afflitto dai morsi della fame. Il suo grado di resistenza troverà presto declino, concludendosi con la scorata decisione di imbarcarsi su un mercantile. Non a caso questa sarà la stessa decisione che arriverà a valutare come soluzione estrema Llewyn, dopo i numerosi insuccessi e delusioni. Ma, differentemente dal romanzo di Hamsun, anche tale possibilità verrà negata a Davis, destinandolo a quel continuo reiterare, ripetere vuoto e inconsapevole di una vita che procede come un’ombra destinata alla fatale fagocitazione delle tenebre. Ma se la fame a cui allude lo scrittore norvegese è metafora della fame di vita, anche il continuo abbandonarsi apatico al destino assume un valore altrettanto metaforico. Una cosa però resta certa, nel romanzo di Hamsun come nel film dei Coen: musica e letteratura sembrano essere gli unici antidoti alle afflizioni della vita. Se le soluzioni che si prospettano all’uomo depresso, preso dallo sconforto esistenziale, sono la morte o l’ostinato vagare infecondo, Llewyn sceglie la seconda alternativa, a differenza del suo ex partner, che infondo rimanda ad un costante fardello col quale egli è costretto a proseguire il suo cammino: la mancanza, incompletezza e vuoto esistenziale.
La solitudine e la perdita di senso che attanaglia questi protagonisti sono espressione sintomatologica della disgregazione dell’io dell’uomo contemporaneo. Il viaggio claustrofobico che affronta questo nuovo antieroe (che va ad arricchire degnamente il nutrito repertorio Coen) avrà quindi sterile esito. L’on the road verso Chicago e l’anelato successo assumono le connotazioni di viaggio antiomerico. L’Ulisse, non a caso anche nome del gatto che lo accompagna, è altra cosa. Ciò che aspetta lo sventurato Davis è una ulteriore perpetuazione vacua dell’esistenza, non una Penelope fedele.
A tal proposito, il gatto assume una certa simbologia. Egli è incarnazione di libertà ed indipendenza. Proprio quella libertà ed indipendenza a cui non riesce a rinunciare Davis, non volendosi adeguare al trend musicale e all’unione con qualcun altro – una necessità di libertà ed intolleranza alla sottomissione, propria della savia cultura ebraica –. Il gatto, nella mitologia egizia, è anche manifestazione terrena della dea Bastet, protettrice di fertilità e gioie terrestri, quali la musica e la danza. Ma il gatto era soprattutto essere sacro, chi uccideva questo animale era costretto ad altrettanta fine. Lo sconfinamento dal limite sacro rende l’uomo sacrificabile, e l’accidentale uccisione dell’animale, dopo il suo abbandono, sembra decretare per Davis il definitivo distacco dal sé. Una morte, se non fisica, di certo spirituale. Il distacco dall’animale prima di intraprendere la strada verso la città di Chicago e la successiva perdizione fatale sono strettamente connessi. È una sorta di distacco dallo spirito guida, da colui capace di “mostrare la Via”, come secondo la cultura animista dei monaci Zen.
In conclusione, l’atmosfera retrò è resa sublimemente dalla luce opaca e dalle musiche folk di cui è imbevuta l’intera pellicola. Un accenno finale al sommo Bob Dylan giunge opportuno, assurgendo a nota edulcorante, come a dire che ciò che Llewyn Davis ha tentato ed iniziato verrà concluso e perfezionato dal più fortunato Dylan.