Sembrava scomparso dalla circolazione, e invece Terence Davies è più attivo che mai. Negli ultimi vent’anni ha girato quattro film a soggetto, tutti tratti da romanzi, e il documentario “Of Time and the City” (2008) sulla nativa Liverpool. Ma era dai tempi de “Il lungo giorno finisce” che un film non portava la sua firma anche come autore di una sceneggiatura originale. È il caso di “A Quiet Passion“, ossimoro che ben descrive sia il soggetto – la vita adulta di Emily Dickinson – sia il tono generale del film, al contempo castigato e fiammeggiante.
Davies si è fatto conoscere negli anni del cosiddetto Rinascimento inglese grazie ai suoi piccoli film rigorosi e nostalgici, strazianti nell’analisi del passato – compreso il proprio vissuto di persona omosessuale. A partire da “The Neon Bible” (“Serenata alla luna”, 1995) ha preso una china sempre più calligrafica, una via di mezzo tra la maniera Merchant/Ivory e i rari guizzi del “Ritratto di signora” di Jane Campion.
“A Quiet Passion” tenta il colpaccio. Davies è un esperto di ossimori e nature morte (“Distant Voices, Still Lives” docet) e l’idea di portare sullo schermo una vita scevra di eventi come quella di Dickinson, poetessa reclusa, ben si attaglia al suo stile trattenuto e struggente. Sfida vinta solo in parte. Tralasciando la recitazione, impeccabile, la pellicola è lenta nel sedurre lo spettatore con soluzioni visive, movimenti di macchina, dissolvenze incrociate. I dialoghi, al contrario, sono sovraccarichi e difficili da metabolizzare. Come se i primi minuti dei “Misteri del giardino di Compton House” valessero per l’intera durata del film: wit, wit, wit. In più, le poesie. A volte arriva la zampata, molte altre un dialogo brillante fa dimenticare il precedente come un chiodo scaccia chiodo sintomo di scarsa armonia drammatica. Si ha l’impressione di vedere un libro senza potersi soffermare sulla pagina.
Una scena, almeno una, è esilarante. Quella del tè pomeridiano con l’acqua (vedere per credere). Il resto del film è un viaggio nella psiche di Emily, e nella morte. Le immagini più riuscite filmano la malattia, il rantolo, l’ultimo respiro. Qui Davies torna ai livelli di raffinata umanità che l’hanno fatto conoscere trent’anni or sono.
Le buone notizie è che il regista è al lavoro su due nuovi progetti, un adattamento e un biopic. È evidentemente il ritratto la forma espressiva in cui si trova a proprio agio, e A Quiet Passion ne è l’esempio più plastico e letterale. A quando, Mr Davies, un film basato sui “Beati anni del castigo” di Fleur Jaeggy?