“Se vuoi saltare, salta”.
La prima immagine che interrompe l’incubo psicotropo di Vanya (Petr Skvortsov) è fuori campo. Un volo di alcuni metri dal balcone di un appartamento fino all’asfalto sottostante, lo schianto e il suono di un allarme probabilmente innescato dal contraccolpo. Un gesto estremo, percepito da uno degli amici del ragazzo con quell’indolenza endogena al punto di vista aumentato, che caratterizza lo sguardo della generazione Z.
L’opera prima dell’attore Alexander Gorchilin, parte del gruppo di lavoro di Kirill Serebrennikov, segue il percorso dell’esperienza VR in modo sottile, sbarazzandosi di orpelli estetizzanti e di marcature definite. Non c’è alcun elemento in “ACID” che consenta di riferirsi in modo esplicito alle nuove tecnologie, nè più volgarmente ad una visione “dopata”, se non nell’applicazione di un “andamento” del racconto, che sfrutta le logiche mediali, determinanti nell’assetto dei nuovi percorsi urbani.
La solitudine dell’individuo nei grandi complessi cittadini globalizzati dalle nuove fenomenologie “smart”, almeno per come le ha previste più volte la narrazione filosofica di Zygmunt Bauman, trasforma lo stupore intellettuale del flâneur, in quello stato di obnubilamento della coscienza che Ian Hacking identifica nella figura liminale del fugueur, sospesa sul crinale tra follia e un trauma impossibile da codificare.
Diversamente dalla cecità coatta sperimentata dal personaggio di Kate Macer (Emily Blunt) in Sicario di Denis Villeneuve, dove il passaggio verso l’assenza (di senso, di stato di diritto, di visione) è osservato come un’acquisizione negativa di consapevolezza, la nuova generazione russa descritta da Gorchilin abita totalmente quel vuoto senza conoscerne margini ed estensioni e interpreta il mondo con la tempesta sensoriale ed emotiva desunta dai salti narrativi dello storytelling videoludico, dove la distanza sempre più sottile tra reale e virtuale è animata da un assottigliamento nichilista del senso di responsabilità.
“ACID” aggrega i luoghi dell’esperienza giovanile tra discoteche, stanze immerse nell’oscurità, spazi urbani legati alla storia dell’architettura funzionale sovietica, adesso completamente derealizzati. E lo fa senza logica apparente, se non quella del viaggio interiore verso il vuoto.
La didascalia a margine è chiara, a partire dalla lettura al contrario dello stesso film, quella dedica beffarda alla generazione adolescente negli anni novanta, i padri e le madri che hanno disatteso qualsiasi speranza di cambiamento.
Il film di Gorchilin dialoga allora direttamente con “Leto” di Kirill Serebrennikov, ricostruzione di uno sguardo “free” sulle tracce di Viktor Tsoï, front leader dei Kino, ma da una prospettiva rovesciata e annichilita, tanto che di quelle speranze, rimane solo la pantomima parodica e patetica dell’utopia nella figura della madre di Sasha; vegetariana, in cerca di un’identità, fuori dal recinto della violenza domestica, ma non completamente, considerate le intrusioni feroci dell’ex marito nella gestione disordinata dell’educazione del figlio.
L’acido del titolo non è quello scambiato durante le nottate della club culture, né la visione “doomed” di Gaspar Noé. Viene utilizzato per la prima volta nell’atelier di un artista per modellare icone scultoree legate al passato storico dell’Unione Sovietica. Eroi di marmo immersi in una soluzione d’acqua e acido perclorico, modificati per una successiva concettualizzazione. Nell’atto del bagno in soluzione, l’artista sembra un esecutore criminale, un killer che ammanta di valenze estetiche l’epurazione di qualsiasi cultura.
Con il mercato globale che cannibalizza qualsiasi azione, anche quella legata alla prassi creativa, l’unico gesto possibile che sia in grado di attraversare il corpo, di ferirlo, di sentirlo nuovamente pulsare, è l’ingestione di quella sostanza corrosiva, letale per l’organismo umano. Dopo una nottata a base di sesso, il primo a provarci è Petya (Aleksandr Kuznetsov) e tra tentazioni pericolose e lesioni irreversibili, la boccetta di acido li attenderà dall’altra parte del guado.
Gorchilin riesce a strutturare un non-racconto con gli innesti e le cicatrici dello spazio urbano, filmando la vita notturna da una prospettiva marginale e riuscendo, anche in quei casi, a immergere il personaggio nel buio profondo dell’isolamento; la prima sequenza ambientata in un techno club è in questo senso straordinaria, con l’elaborazione del “lutto” da parte di Sasha e compari esperita nell’apnea della danza collettiva, mentre la bassline sempre più attutita e lontana, scandisce un tempo senza inizio né fine.
Allo stesso tempo riesce a mettere in comunicazione diversi strati della società russa contemporanea, con una sintesi visivo-drammaturgica molto spinta, raccontandoci un disorientamento collettivo che colpisce qualsiasi falda, da quella interpersonale fino alla sovrapposizione di culture eterogenee senza più tridimensionalità storica.
Se in questo senso la sequenza più tesa, ambientata davanti alla fonte battesimale di una chiesa ortodossa può sembrare sin troppo simbolica nel creare questa saldatura inquietante tra una nuova upper class, il clero e i giovani outsider lobotomizzati, Gorchilin riesce a creare un crescendo disturbante, congelato un attimo prima dell’esplosione.
Tutto “Acid” è attraversato da questa forza pulsionale apparentemente illogica, ma trascinata da quel dibattersi dell’anima dentro la grandi prigioni globali.
Il giovane regista russo si tiene lontano dal maledettismo di un genere che è divenuto in alcuni casi tale e racconta con la furia delle opere prime, quel senso di spossessamento, anche “narrativo”, che attraversa un’intera generazione.