Cementificata nella parola, l’immagine di Ad Astra non respira, non brilla, non si espande. È chiusa in un corridoio verbale bidimensionale, in una forma di continua autogiustificazione esplicativa direzionata verso traguardi di trasparenza e forte comunicatività. È quindi tenuta in uno stato di cattività che non le permette di esprimersi se non per vie traverse, inconsce, laterali. Tutto nel primo film hollywoodiano di James Gray sembra dichiararlo: dall’uso della voce over del protagonista interpretato da Brad Pitt – pensato come un contro bilanciamento correttivo per qualsiasi forma di diversificazione formale e contenutistica, per i guizzi contemplativi – alla struttura della trama – allineata a un punto di fuga lieto ed evasivo. Bisogna spezzare questa sovrastruttura rigida e compatta, pensata forse per garantire un ritorno sicuro di budget, e sbirciare dentro alla scatola di contenimento dell’estro per osservare (anche solo intuendo) la proporzione potenziale del magma, l’impennata teorica assopitasi nella dilatazione dello schermo. Guardando (scomponendo e riposizionando quanto di prodotto, come in un’ucronia delle intenzioni autoriali) si intravede la danza con cui una riflessione sfuma nell’altra potenziandola: la suggestione della circolarità ricorsiva dei destini, già inscritti in una bolla a forma di lens flare, precipita nel discorso sull’eredità dell’immagine identitaria – padri che fuggono da figli che li rincorrono per fuggire dagli errori dei padri – e poi si sublima in una contemplazione della solitudine come porta della coscienza, come chiave della risposta alla morte – siamo tutto ciò che abbiamo, l’unica forma di vita complessa. Dentro alla corteccia dello sproloquio descrittivo (un film di fantascienza pauroso dell’immagine è un film che non sa sognare il futuro) infine è possibile scorgere un’ultima intuizione a punctum che somma tutte le altre: nella circolarità del tempo l’uomo viaggia ai confini dello spazio e della psicosi per tornare in se stesso e alla propria immagine ideale, uccidendo l’immagine proiettiva, la maschera che indossava per abitudine mimetica. Si riappropria del proprio punto di vista grazie a un viaggio interplanetario che è sguardo sul mondo a riconquista di una soggettiva. È però questo solo un immaginare incantato, legittimato solo da alcuni momenti rivelatori e non un constatare fattuale ancorato alla superficie del testo. Peccato davvero.