Adaline Bowman (Blake Lively) ha un anno più di Manoel De Oliveira nel giorno della sua scomparsa, ma ne dimostra 29. Eppure, al contrario della vitale visionarietà senza tempo del grande regista portoghese, lo spirito che la tiene in vita è quello di una progressiva scomparsa dell’orizzonte visivo, una fuga dal mondo che si verifica ogni dieci anni con un cambio strategico di identità ma anche con una separazione decisa da qualsiasi coinvolgimento che possa alimentare in modo doloroso questo scarto della durata. Adaline è una “go betweener” come gli adolescenti di Mark Romanek / Kazuo Hishiguro, la Ruby Sparks di Dayton/Faris, il Dominic Matei di un’altra giovinezza (anche lui, colpito da un fulmine), il Benjamin Button di Fincher / Fitzgerald.
Adaline è testimone di quel “diventare spettro” a cui si riferiva Barthes quando assimilava la fotografia ad un’esperienza di morte; impiegata di un archivio storico, organizza l’inventario di alcuni cinegiornali d’epoca, come se il suo tempo condividesse l’eterna durata di quello cinematografico, non più una questione quantitativa scandita da un quadrante ma del tutto qualitativa e connessa al divenire degli stati d’animo; il terremoto di San Francisco proiettato in 16mm sullo schermo della biblioteca consente ad Adaline di ripercorrere un passato espanso, nella voragine temporale di cui è testimone obbligata.
È tutto chiarissimo nel film di Lee Toland Krieger, palese per il modo in cui sembra agganciarsi alla freddezza anti-romantica di un involucro scientifico “for dummies”, teoria del caos inclusa, astraendo il meccanismo del “romance” in una dimensione dove è proibito toccarsi così da congelare il cattolicesimo stucchevole di Nicholas Sparks in quel movimento di fuga continua dal proprio destino, che trattiene lo sviluppo di un sentimento nella potenzialità dell’istante.
Adaline si ferma sempre un momento prima che la storia prenda forma, rimanendo ai margini e assimilando il punto di vista a quello del cinema stesso; Krieger non ha certamente l’intenzionalità teorica dei presupposti, ma per metà del film è assolutamente un bene, perché segue con leggerezza e senza pretese il percorso di questa piccola Forrest Gump annichilita nel tempo, come se fosse l’immagine lieve della disillusione affettiva, salvo ricombinare tutti i pezzi quando il cortocircuito temporale rischia di deflagrare in tragedia; è proprio qui che Krieger dimostra di essere più vicino ad una versione nostalgica e di maniera del cinema di Frank Capra, dal quale desume solamente la superficie favolistica con l’incantesimo a far da sigillo a tutta la vicenda nel solco della tradizione. Si ritorna, rovinosamente, dalle parti di Nicholas Sparks, ovvero di quella riflessione sul destino e la semplicità delle cose vissute, fuori dal mondo e dentro il tempo infinito delle soap; a Krieger manca la leggerezza di un Richard Curtis, che nello splendido Questione di tempo aveva offerto un piccolo ma sentito saggio di impostazione dello sguardo, come perdita progressiva del fuoco, del controllo e di quella onniscienza che pesa su tutta la vita di Adaline.