Godard dice addio au langage, l’atto linguistico di ogni parlante nell’usare la langue, e lo fa con una stilizzazione della messa in scena che è un autentico delirio di dissolvenze incrociate, superamento delle resistenze poste dalla logica tradizionale, polverizzazione dei rapporti di senso. La logica aristotelica esce di scena, e anche piuttosto fragorosamente.
Quello che passa davanti alla macchina da presa/occhio/cervello si trasferisce sullo schermo in una continua (apparente) negazione dei nessi di causa ed effetto. E’ come se il linguaggio, divenuto plastico, si ricompattasse in altre forme non ancora codificate. E’ un’immersione nel flusso di un reale non più riconoscibile, stando alle vecchie categorie.
“Le cinéma, ce n’est pas une reproduction de la réalité, c’est un oubli de la réalité. Mais on si enregistre cet oubli, on peut alors se souvenir et peut-être parvenir au réel. “
“… c’est un oubli de la réalité. Mais…”
Mais, congiunzione fortemente avversativa, s’insinua fra i due sintagmi e ci riporta, peut-être, al reale.
Ma quale reale?
Godard dissemina indizi e la rivelazione arriva nel finale. Si chiama Alfred Elton van Vogt. La fin du A è il libro che l’uomo ha in mano, aperto (lui è l’uno della coppia di cui il film si occupa; lei, l’altra, è fuori scena). La macchina indugia con intenzione sul titolo. “Come scrittore Van Vogt non è affatto un gigante come si dice: è solo un pigmeo che usa una gigantesca macchina da scrivere “ dissero i detrattori. Ma l’auspicio di Korzybski per l’adozione di una logica non-aristotelica l’ha raccolto lui, e Godard ce lo ricorda. E così A non è più necessariamente uguale ad A, le proposizioni possono essere contemporaneamente vere e false e il terzo non è più escluso.
Esempio: “1933: vi dice qualcosa? Hitler eletto democraticamente cancelliere del III Reich”
E ancora: “Nel ’93, durante il Terrore, la Convenzione ha prodotto il Codice Civile, il nuovo calendario, il sistema decimale, la produzione di acciaio, la Ragioneria dello Stato, il Conservatorio di musica.
L’Impero e le armate della Rivoluzione furono vinti, ma avevano portato in tutta Europa l’idea di Repubblica”.
La lingua ha fallito. L’immagine che le dava corpo, la faceva lievitare in forma/ colore/ volume/ movimento, è diventata sterile. Il pensiero è una specie di flusso continuo, risolvere la discordanza con il suo mezzo di espressione, che è discontinuo, non è più possibile se non barando o inventando strade diverse.
Può il 3D ridarle spessore? La scienza, la tecnica, possono aiutare il cinema a “raccontare”? Ma la magia del reale, sarà possibile inscatolarla ancora? La truffa delle parole, il naufragio delle parole, la loro dissonanza, il tramonto dell’Occidente. Se vogliamo ancora vivere e pensare il cinema bisognerà prenderne atto e seguire un’altra strada.
“Come sapete non faccio parte del sistema distributivo da molto tempo, e non sono dove voi pensate che io sia. Al momento sto seguendo un’altra strada. Ho abitato altri mondi, alcune volte per anni, altre per pochissimi secondi, protetto dagli appassionati di cinema; sono andato e rimasto” (JLG)
Apparentemente informale, Adieu au langage cerca piuttosto una forma incontaminata.
Una didascalia chiarisce in apertura le intenzioni del regista: “Chi manca d’immaginazione si rifugia nella realtà. Resta da vedere se il non-pensiero contamini il pensiero”.
Un rosso ADIEU in sovrimpressione si accende ad intermittenza in apertura, quindi scorrono settanta minuti di tutto il pensabile/ riproducibile/ immaginabile/ inimmaginabile/ detto/ scritto/sognato e altro ancora. Non sembri assurdo, la cadenza è quella classica della tragedia. Scandito in prologo, atti ed epilogo, come la tragedia fondato sull’esperienza visivo-auditiva che esclude ogni mediazione letteraria, è in scena l’atto del “guardare” , o, meglio, la sua negazione:
“Non è l’animale ad essere cieco ma l’uomo, accecato dalla coscienza, incapace di guardare il mondo”
Se per Claude Monet, dice Godard, si trattava di “dipingere il non vedere” , qui si tratta di raccontare il non raccontare. E se l’epilogo è affidato a van Vogt, nel prologo entra in scena Elull.
Foto e titolo dell’opera si stampano sul display di uno smartphone. Segue commento: “Aveva previsto tutto, o quasi: il nucleare, gli OGM, la pubblicità, le nanotecnologie, il terrorismo, la disoccupazione.”
Ma come dirlo?
LA NATURA /LA METAFORA
Sono i titoli delle due sezioni-base. Una storia d’amore, o di sesso, o di entrambe le cose, si avviluppa intorno all’asse portante del film, che potrebbe essere individuato in una frase: “Mi disgustate tutti con la vostra felicità. La vita che dev’essere amata a tutti i costi. Io sono qui per dirvi no. E per morire”.
Finirla con i compromessi dello sguardo.
“Le parole! le parole! Non voglio più sentirne parlare” Trascendere, allora, il non raccontabile. Cosa c’è di vero tra i due amanti? Bisogna entrare in bagno, cuore della casa, per capirlo:
“Io parlo di uguaglianza e tu parli di cacca” – fa lei, in piedi, di schiena, nuda.
“ Perchè è lì che siamo tutti uguali” – dice lui, di fronte a lei, seduto.
Elull l’aveva preconizzato, in fondo: “Necessità della rivoluzione in un mondo in cui essa è diventata impossibile e di una rivoluzione che attacca le strutture profonde di una civiltà di cui tutti gli sforzi tendono verso questo unico scopo: trasformare in brandelli tutti gli esseri umani”.
E’ dunque vero, allora…
“Non ha potuto renderci umili, o non ha saputo o non ha voluto, e così ha fatto di noi degli umiliati”
“Chi? “
“Dio”.
La coppia finirà per separarsi, due sedie vuote di fronte ad un televisore muto. Incomunicabilità.
“Ciò che c’è fuori lo sappiamo solo dallo sguardo dell’animale”, Rilke l’aveva detto e Darwin aveva già da par suo concluso che: ” Il cane è il solo essere sulla terra che ti ama più di quanto ama sè stesso”.
Al cane, allora, il compito di chiudere.Scodinzolando bel bello (… non c’è nudità in natura, e il cane non è nudo perchè è nudo) s’inoltra nel bosco, tripudio di verdi e rosso-acero.Lallazioni e vagito di neonato a scena aperta, due papaveri rossi in primo piano sul bordo di un’autostrada, tutto comincia dove finisce.
Jean-Luc Godard, ottantaquattro anni. Si può ancora sognare.
“Ci vorranno dei figli. Non so. Un cane, sì. Ecco la storia che raccontano i cani. Quando il fuoco brucia chiaro nel focolare e il vento soffia dal nord. La famiglia allora fa cerchio intorno al fuoco, i cuccioli ascoltano in silenzio e quando la storia è finita fanno molte domande:cos’è l’uomo? cos’è una città? cos’è la guerra?”
Un nutrito plotone di scrittori, filosofi, musicisti e poeti, tutti méntori in varia misura del regista, fa bella mostra di sè in elenco non alfabetico nei titoli di coda.
Jean-Luc Godard, ottantaquattro anni. Si può ancora stupire: “Le propos est simple, une femme et un homme se rencontrent, ils s’aiment, se disputent, les coups pleuvent. Un chien erre entre ville et campagne.”
Più semplice di così!