Sei anni e passa di riprese per catturare l’anima di Rod el Farag, frammento del grande quartiere di Shobra, a maggioranza copta. Indie-Eye ha parlato con la regista Reem Saleh, cresciuta in Libano, chiedendole prima di tutto com’è riuscita a farlo. Reem ha trovato nella propria famiglia la chiave di accesso a una delle aree più povere della capitale egiziana: sua madre è infatti nata lì. Un legame come un lasciapassare. La regista ha seguito le vicissitudini quotidiane di un gruppo di vicini, musulmani, avente come fulcro la cinquantenne Um Ghareeb. I nomi usati nel film sono probabilmente nomignoli, tant’è che quello della protagonista significa “madre del tipo strano”. Il fatto che a questo si accompagni un’estrema nonchalance nel parlare di questioni molto private a volto scoperto rappresenta un primo segnale dissonante lanciato da un documentario che solleva molte questioni lasciandole volontariamente in un limbo di ambiguità.
Il filo rosso, per quanto tenue, del lavoro di Saleh è la Gami’ya del titolo, la raccolta di fondi volta a soddisfare, ogni mese, una diversa richiesta da parte dei sottoscrittori. Si va dall’acquisto di un motorino alla copertura dei debiti, da un matrimonio alla MGF, la mutilazione genitale femminile. L’obolo – non piccolo per un’area disagiata – è di dieci sterline egiziane al giorno.
In ben due scene Dunia, anni dieci, rivendica con orgoglio di aver fatto ricorso alla MGF – che nelle aree urbane egiziane si traduce nella recisione del clitoride. La prima volta si assiste a una vera e propria messa in scena, orchestrata dalla ragazzina, di quando ne diede notizia al padre dopo aver finanziato l’operazione grazie alla raccolta fondi. La seconda scena vede Dunia andare nel dettaglio dell’intervento parlando con un’amichetta. La circoncisione femminile è fuorilegge in Egitto dal 2007, ma soprattutto nelle fasce più povere della popolazione continua a essere praticata per via di un’immane pressione culturale e religiosa. Nessuno nel documentario accenna all’illegalità della pratica, probabile sintomo di una cesura tra il corpus legislativo e il “popolo profondo”.
Il secondo elemento dissonante è dato dalla sensazione di artificialità, in certi casi palese, che permea alcune sequenze. Dunia insiste per improvvisare una sitcom in salotto, rivivendo il momento in cui il padre, contrario alla MGF, venne informato a cose fatte. Scatta un parapiglia ma tutti sorridono. Non a caso nessuno di loro è un attore. Però la regista sottolinea come tutto ciò che viene menzionato o mostrato nel film sia vero. Si va dalla mutilazione volontaria dell’irrefrenabile Dunia al suo atteggiamento sfrontato nei confronti di chiunque, anche della madre, sino al finanziamento di due matrimoni in pompa magna in meno di un anno visto che lo sposo decide di lasciare la prima consorte a una settimana dalla cerimonia.
Il documentario s’impernia su eventi spiazzanti quasi quanto la leggerezza che li accompagna. Sembra manchi qualcosa: una voce narrante che faccia ordine, un cappello introduttivo, un sottotitolo decisivo. Con le sue immagini semplici, Al Gami’ya ci scaraventa in un mondo che non si lascia interpretare. E dire che Reem Saleh ha girato abbastanza materiale da montare almeno altri due film.
“C’è tanta dignità” ci confida la regista. “Le persone che ho filmato non si rivolgerebbero mai a te chiedendoti qualcosa. Vogliono affetto, vogliono attenzione. Noi non abbiamo idea di come si viva veramente nelle aree povere. Spero che il film venga proiettato anche in Egitto, perché credo non ci sia nulla di cui vergognarsi. Non c’è nulla di male a essere poveri”.
P.S. Ringrazio Yassien Aglan per avermi fatto leggere tra le righe. Bahebak.