Alabama Monroe si apre con le immagini di una band maschile che in tenuta “rurale” esegue una versione bluegrass di “Will the Circle be unbroken”, classico del country americano. Del brano scritto agli inizi del ‘900 e interpretato negli anni da musicisti del calibro di Nitty Gritty Dirt Band e “Mother” Maybelle Carter, Felix Van Groeningen utilizza solamente il chorus conclusivo, vera e propria invocazione innodica dalle ovvie reminiscenze gospel, che si interroga sulla relazione circolare tra vita e morte, un riferimento esplicito non solo al titolo originale del film ma anche al dissidio tra fede e ragione che attraversa questo piccolo racconto di sofferenza famigliare.
Quando lo scenario si allarga contestualizzando la performance, il paesaggio non è certo il Kentucky di Bill Monroe, ne quello contemporaneo, ma la Gand degli ultimi dieci anni, ovvero il capoluogo delle Fiandre Orientali. Una sovrapposizione solo apparentemente bizzarra che in realtà da una parte recupera, quasi idealmente, le radici europee di un genere “nativamente apolide” e dall’altra documenta la notevole esplosione di formazioni bluegrass Europee che ha visto il Belgio come importante centro produttivo degli ultimi anni; un contesto che quindi Groeningen conosce molto meglio dei critici che si sono stupiti di questa strana (?) commistione, tanto da inserire nella line-up che porta avanti tutti i numeri musicali, alcuni musicisti dei Rawhide, notissima band Bluegrass di Anversa, già pronta per portare in tour le canzoni del film insieme ai due protagonisti, Veerle Baetens e Johan Heidenbergh.
Al di là delle strategie di mercato, se c’è un tentativo “originale” di contaminazione, questo è sul piano visivo e iconografico, che per forza di cose attinge da un certo immaginario americano tra i settanta e gli ottanta (da Butch Cassidy a Urban Cowboy) elevando su tutti il quadretto antropologico di impostazione Altmaniana e cercando di non farlo sentire troppo fuori posto nel contesto geografico di riferimento. Nelle intenzioni, tra l’altro chiarissime, si cerca di tenere in piedi il film attraverso il songtelling, costruendo un racconto per sezioni temporali disgiunte che va avanti e indietro e il cui unico collante è appunto rappresentato dai momenti performativi, contrazione di tutte le tensioni entro lo spazio drammaturgico del “numero”, che poi invaderà anche quello quotidiano.
Adattamento della piece teatrale scritta dallo stesso Johan Heidenbergh insieme a Mieke Dobbels, “The Broken Circle Breakdown” mette al centro la passione di Didier (Heidenbergh) per la musica e la mitologia country, il suo eroe è Bill Monroe, figura seminale nello sviluppo del Bluegrass, dal quale cerca di desumere tono, impostazione e in parte anche stile di vita.
Quando l’imponente e solitario musicista conoscerà Elise (Veerle Baetens), tatuatrice e “donna illustrata”, con i segni della vita passata, presente e futura, incisi sulla pelle, tra i due nascerà un’istantanea storia d’amore tenuta insieme dalla relazione con la musica, ragione di vita per Didier ed espressione del tutto istintiva per Elise.
Dal loro matrimonio nascerà Maybelle, battezzata con questo nome probabilmente in onore di Maybelle Carter, nota interprete country degli anni settanta e voce per una delle versioni più conosciute di “Will the Circle be unbroken”.
Durante la prima infanzia a Maybelle sarà diagnosticato un tumore, un evento che costringerà la coppia ad affrontare una battaglia durissima con una forza vitalistica che ricorda in parte quella condotta da Valerie e Jeremie ne “la guerra è dichiarata“, lo splendido film della Donzelli anch’esso attraversato da una fortissima energia musicale.
Felix Van Groeningen, il cui amore per gli outsider e le famiglie non convenzionali sta diventando una costante film dopo film, sviluppa il racconto, come si diceva, con una serie di sezioni concluse e temporalmente ricombinate che aggiungono progressivamente elementi; una strategia tutto sommato artificiosa che da sola non riesce a generare vera forza emotiva; questa al contrario rimane intatta nella vicinanza ai corpi, nel tocco spesso leggero che mette in relazione la coppia con la piccola Maybelle, in un tentativo di prolungare gli effetti benefici e “playful” di una performance nello spazio terribile dell’ospedale, quindi non solo il numero musicale conclusivo, che indica una penetrazione davvero commuovente tra lo spazio quotidiano e la dimensione improvvisativa della canzone, ma anche tutti i piccoli giochi imbastiti da Didier per stupire la figlia, come il racconto sulla luce propagata dalle stelle.
Groeningen sembra quindi trovarsi molto a suo agio nella creazione di un cinema fisico, legato al numero o all’esplosione umorale del gesto, come per esempio nella sequenza dello sfogo di Didier, sorta di rovesciamento della performance bluegrass eseguita in ospedale, dove il dolore del mondo entra nello spazio teatrale e spezzando la magia della performance, restituisce con potente immediatezza quel dissidio interiore che attraversa anche la relazione della coppia.
Meno convincente il tentativo di trasformare il montaggio in forma ritmica e musicale; tutta la parte visionaria poco prima della conclusione, ha un po’ il sapore di una psichedelia visiva di maniera, falsificante, accessoria e poco credibile, un po’ come questi continui riavvolgimenti della storia, che rischiano di neutralizzare la forza delle sequenze più dirette e semplici, di cui Groeningen dovrebbe avere forse meno paura.