In Germania sulle Alpi Bavaresi, a Berchtesgaden nell’ Obersalzberg c’è una villa, il Berghof. Una strada scavata nella roccia porta da lì alla Teehaus, rifugio-bunker voluto da Hitler che nel ’36 affidò a Martin Bormann la direzione dei lavori.
“Come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto.” (( A.Manzoni, I promessi sposi, cap. XX ))
Ma questo selvaggio signore del Terzo Reich salì ben poche volte a quelle altezze, troppo occupato a risolvere i destini del mondo, con buona pace di Stefan Zweig, suo dirimpettaio dalla vicina Salzburg: ”Con quanti abbiamo passato ore che riscaldavano il cuore lì, affacciandoci dalla terrazza sul meraviglioso e pacifico panorama, senza sospettare nemmeno che esattamente davanti, sulla montagna di Berchtesgaden, sedeva un uomo che un giorno avrebbe distrutto tutto questo?” ( Stefan Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, 1944, ed. Mondadori )
Quell’uomo è sparito il 30 aprile del ’45, bruciandosi le cervella con un colpo di pistola, e mezzo secolo dopo Sokurov gira The mystery of the mountain (poi titolando più efficacemente Molokh) primo atto della trilogia del potere, ricostruisce gli interni nei padiglioni e nei laboratori della Lenfilm, filma gli esterni sul luogo originale, ingaggia attori dai teatri di San Pietroburgo e affida la parte di Hitler a Leonid Mozgovoj, eclettico attore formatosi sui grandi classici della letteratura e del teatro russo (sarà Lenin nel successivo Taurus). Sonata for Hitler, documentario di 11 minuti, girato nel ’79 e sdoganato dalla censura nell’’89, aveva già mostrato, sulle note di Bach e Penderecki, come si possa fare di un documento storico una visione lirica sul destino dell’uomo e fornire in pochi attimi una lettura della storia di valore universale. Ora il regista torna su quell’uomo e ne fa il simbolo della decadenza di un’epoca e di una cultura, espressione di una tragica concezione del mondo che in lui e nel momento storico in cui visse trovò troppo facili occasioni e opportune circostanze per tradursi nella realtà della guerra, dei campi di sterminio e dell’ideologia della razza. Un piccolo uomo nel solco della grande Storia, un capitolo nero nella fenomenologia del potere e del fascino che esercita sulle masse mentre si avviano, guidate da sanguinari pifferai di Hameln, verso la caverna.
Hitler arriva al Berghof in un nebbioso mattino primaverile del ’42 con i suoi fedelissimi, Goebbels, lo storpio scrittore fallito e genio della propaganda, inseparabile da Magda, la moglie più fedele del Terzo Reich, e Bormann, grasso e rozzo factotum, punzecchiatore del primo per invidia del genio e disprezzo della bruttezza. Fidatissime ed elegantissime SS al seguito (memorabile l’immagine di due di loro mentre, a guardia della bella brigata in gita pomeridiana fra balzi e dirupi, si stagliano sullo sfondo del cielo nuvoloso a formare, nel controluce, una stilizzata, perfetta doppia V rovesciata), cuochi e cameriere in ossequiosa attesa, ed infine Eva Braun, bionda e atletica, svolazzante fra terrazzo e saloni vuoti, mentre ascolta marcette su vinile gracchiante, sfoggia toilettes di alta sartoria, e vive lì, in attesa del suo Adì, ne conosce miserie e debolezze, ne subisce la freddezza cadaverica e l’ipocondria distruttrice di sé e degli altri. Eva si stacca dal gruppo, è immune dal grottesco servilismo degli schiavi, la sua femminilità umiliata sembra, per contrasto, esaltarla, nella lugubre sfilata di queste maschere tragiche è l’unica che conservi un’umanità vitale ed esuberante, una sintonia con la natura ed un’ironia disperata che le danno un rilievo molto umano, mentre pronuncia alcune tra le battute più importanti del testo: “Ma si può salvare la propria anima così da amare un mostro? Questa è la domanda che mi ha turbato di più. Eva Braun, secondo le memorie esistenti, è stata capace di sacrificare sé stessa per amore. Per questo motivo è stata condannata, per una vita tragica. Lei è il vero personaggio principale del film. ” (A.Sokurov)
Solo lei dice ciò che pensa a quell’uomo che, paradossalmente ed incomprensibilmente, ama, pur definendosi, con amaro realismo, “una donna incontrata per caso, una domestica che un giorno ha aperto la porta sbagliata”. Una domestica che, però, può dirgli :“Quando non avete accanto qualcuno che vi ascolta vi trasformate in un cadavere”, e non perché goda di immunità e privilegi, ma solo perché si inscrive in coordinate diverse, Sokurov ne fa un ritratto plastico che si stacca dalle figurine senza prospettiva, schiacciate sullo sfondo, dei convitati a quel funebre banchetto ad ascoltare, compunti e accondiscendenti, i Tischgesprache, i “discorsi a tavola” di Hitler, deliranti divagazioni sulla dieta vegetariana a base di ortiche da coltivare in Ucraina, sui rapporti con l’alleato italiano, a cui, prima o poi, bisognerà dichiarar guerra: “… quel loro Duce, un grandissimo Fürher, un esempio per tutti, quel classico profilo da patrizio, l’atteggiarsi orgoglioso della testa,la mascella che minaccia di stritolare chiunque… invece è da considerarsi un perfetto idiota, non capisce nulla di arte, sbadiglia di fronte ad un capolavoro…”
e su Stalin che costruisce i palazzi più alti in Russia invece che a Berlino.
Poi, come una marionetta senza fili, crolla addormentato sulla poltrona, circondato dal silenzio vigile dei commensali. Resteranno al Berghof in vacanza rilassante un giorno e una notte del ‘42, ventiquattro ore di un giorno di ordinaria follia, dove sembra che nulla stia accadendo al mondo per cui valga la pena di interessarsi, e solo due mesi dopo ci sarà la disfatta di Stalingrado. Poi Eva continuerà la sua vita solitaria fra riprese amatoriali dei luoghi, esercizi ginnici e passeggiate nelle fredde stanze vuote del tempio del sanguinario Moloch, dove la guerra aleggia come un incubo lontano, relegata alle immagini di un cinegiornale che Hitler giudica perfino brutto (eppure si tratta di spezzoni della fedele Riefensthal!). E’ a questo punto che Eva propone di mandare l’intera troupe in punizione ad Auschwitz.
Hitler non conosce quel posto! “Ausch… che?”, ed Eva sorride ironica.
“Presto noi sconfiggeremo la morte”, dice Hitler a Bormann, stanno partendo, Eva è arrivata trafelata, di corsa, Adì quasi andava via senza salutarla. “Come puoi dire una cosa simile?La morte è la morte. Non la si può dominare“, dice piano al finestrino mentre l’auto parte, lui la guarda appena, lei ha il viso gonfio, gli occhi vuoti di chi la morte la sta già vivendo.
Lo sguardo invisibile di Sokurov scende fino al fondo grottesco e devastato dell’uomo di potere, mette in scena il suo “crepuscolo della volontà” (( Il Crepuscolo degli Dei di Friedrich Nietzsche e Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl … e avremo la formula del mondo contemporaneo che si trova in Alexander Sokurov: il crepuscolo della volontà. (Alexandra Tuchinskaya, sito web The Island of Sokurov) , mescola musiche di Wagner e Mozart a marcette militari e costruisce scenari in cui l’orrore proviene da un dialogare insensato sul cocuzzolo di una montagna avvolta da nebbie sempre più fitte, l’”unexpected combinations” di elementi reali produce un effetto onirico ai confini con l’incubo, le parole sembrano dettate dalle illogiche distorsioni del sogno, come i contrasti cromatici e i bruschi cambi di scena, allorchè all’opulenza di lucido bronzo specchiante dell’ascensore, che evoca l’iconografia del Moloch in attesa di sacrifici umani, segue l’aspetto sobrio, quasi monacale, degli interni pieni di ombre che hanno la freddezza del marmo e del granito. Avvolte nell’ombra, le figure emergono a tratti in un fascio di luce con la stessa drammatica tensione dei ritratti di Rembrandt, icone “… il cui “tempo” può essere intuitivamente sentito … In questo senso le immagini di Sokurov sono come i sogni, appaiono imporre il loro concetto di tempo su di noi e arricchire, come icone, la nostra coscienza.” ( Thorsten Botz-Bornstein, Films and Dreams, Tarkovsky, Bergman, Sokurov, Kubrick, and Wong Kar-wai , LEXINGTON BOOKS, 2007, p. 34 ))