martedì, Novembre 5, 2024

Aleksandr Sokurov; il ritmo persistente dell’elegia – Taurus

Immersi nella luce ectoplasmatica, verde, trasparente, uniforme per tutta la durata del film, arriviamo all’ultima sequenza, nel patio a colonne della grande villa requisita all’aristocrazia russa, con fini porcellane e bei lampadari, mobili di alto antiquariato e parco immerso nel verde dove Lenin, ormai reso impotente dalla malattia, è stato relegato dal Politburo con un fitto stuolo di inservienti e medico personale, circondato dalle cure delle due donne della sua vita, la moglie e la sorella.
 L’uomo è sulla sedia a rotelle, lo hanno lavato e vestito, trasportato come una mummia sul letto e attrezzato a dovere per una bella passeggiata, anzi, una  passeggiatina (infantilismo del linguaggio, segno del tramonto inesorabile dell’uomo).
 Ora lui guarda immobile nel vuoto, la vecchia moglie, trasandata e stanca, seduta al tavolo sotto il portico, su cui fa bella mostra il servizio da the di pregiata fattura, forse tedesca, appoggia la testa su una mano, è facile che stia pensando a cosa sarà di lei, della famiglia, ora che Volodia non ci sarà più.

Quel severo segretario di partito, Stalin, è appena andato via, col suo lungo cappotto bianco e la testa di contadino della steppa, un uomo forte, si vede, ne hanno parlato a tavola, un georgiano? un ebreo? “No, con gli Ebrei ci si mette sempre d’accordo”, non si sa da dove sia venuto, per la verità, è lì, fa già un po’ paura, chissà perché?

“Com’è salito a quel grado?”

“L’hai voluto tu, Volodia”

La chiamano, corre via ballonzolando sul suo corpo sgraziato, Volodia la guarda, cerca di muoversi, tende il corpo, ricade esausto sullo schienale.
 La macchina passa lenta fra le colonne bianche, lisce, un vento leggero muove gli alberi del parco, l’uomo è di spalle, si alza appoggiandosi a fatica.
Nella foschia, in fondo, qualcuno si muove, mucche al pascolo, un contadino.
 Ora l’uomo è seduto, muove le labbra ma le parole non si formano, sorride, appena, mentre guarda il cielo.
 E’ probabile che si muoia così, può sembrare una chiusura enfatica, ma “gli occhi dell’uomo cercan morendo il sole”, non è il primo Sokurov a dirlo e Lenin è un piccolo uomo, più piccolo ancora degli altri, ora che il potere l’ha abbandonato per sempre.
 Film centrale sulla trilogia del potere, dopo Moloch e prima de Il sole, racconta di Lenin malato ed esautorato a Gorkij, dove morì nel gennaio del 1924.
Un film sulla morte, Lenin è il Taurus destinato al sacrificio rituale, nulla gli appartiene più, neppure la Storia.

Sei come una volta – gli ha detto la moglie – non hai famiglia, né amici, né casa”

“Ma io ho la Storia”

“Hai solo la malattia”

Dolorosa parabola sul potere e sulla fragilità di chi lo detiene, a Sokurov non interessa dare valutazioni storiche né politiche, quelle restano ancorate alla sostanza transeunte del tempo.
C’è qualcosa di più importante di cui parlare, ed è l’uomo messo a nudo, come quel corpo malato del grande rivoluzionario che i servi lavano nella vasca con l’acqua troppo calda, e sostengono come un burattino perché non cada.
E’ l’uomo che un giorno si credette immenso, un Dio, come Hirohito, un  futuro re del mondo in via di conquista, come Hitler, il grande portatore della salvezza dei popoli come lui, il misero Volodia che si dibatte ancora fra rabbia e rassegnazione, lucidità e annebbiamento della mente, rigurgiti rivoluzionari che gli fanno urlare: “La gente muore di fame e noi nuotiamo nell’oro”, distruggendo stoviglie col bastone, il grande statista a cui hanno tolto anche la possibilità di ricevere lettere e telefonate che, purtroppo, non sarebbero arrivate comunque, perché non c’è più nessuno a cui interessi farle.
Neppure la possibilità di avere un po’ di veleno, “Bisogna sentire il parere del Politburo”, gli dice Stalin, breve apparizione di uomo untuoso e arrogante, ipocrita e servile, nibbio rapace che vive aspettando il suo momento.

Leonid Mozgovoi, già interprete di Hitler in Moloch, rivela una sensibilità raffinata nel rendere tangibili i segni di una distruzione fisica e morale che diventa parabola universale del destino dell’uomo, la mano del regista si muove sicura nel padroneggiare uno stile in cui converge la lezione dei formalisti russi in felice simbiosi con suggestioni impressionistiche, la fotografia da lui curata direttamente cattura i particolari con minuzia, filtra colori e luci, elabora quel linguaggio delle immagini che affascina con la forza della poesia che emana, un lungo canto sull’uomo e sull’Universo di cui è ospite effimero e appassionato.

 

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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