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All that Radio: A Prairie Home Companion di Robert Altman

aphc_poster-794529.jpgA Prairie Home Companiondi Robert Altman

USA, 2006

56a Berlinale – ConcorsoCircoscrivere, popolare, moltiplicare le piste sonore e filmare con pudore. Altrimenti detto il metodo Altman, che in quasi quarant’anni di alterne fortune s’impone più in forma che mai in A Prairie Home Companion. Ultimo walzer di un live radio show davvero esistito, il cui autore Garrison Keillor – oltreoceano, una leggenda – appare sia in sede di sceneggiatura che in carne e ossa a condurre la serata, A Prairie Home Companion è un nuovo quilt altmaniano, corale, fluido, straordinario. Coadiuvato da un obiettivo vispo come quello di Ed Lachman. Chi lo dava per spacciato dopo lla visione di The company (2003) dovrà ricredersi all’istante. Bob è uno splendido ottantenne, alive and kickin’, con la musica country nelle vene e nel polso. E che polso.

 Il programma-happening di Garrison Keillor nasce in Minnesotra nel 1974. In Italia verrebbe chiamato rivista musicale: uno show di canzoni, chiacchiere e formidabile intrattenimento da parte del suo creatore nonché sempiterno padrone di casa. Altman parte da questi presupposti e realizza una sorta di Nashville a porte chiuse e senza politica, in cui lo spettacolo – ultimo, che importa? – è l’unico mondo possibile. Non è un caso che il pubblico si veda solo di schiena, e da lontano. La rivista chiude i battenti per il solito motivo: introiti in calo e l’acquisto del teatro da parte di un’azienda cannibale incarnata da un Tommy Lee Jones cattivo, malinconico e morituro. La trasmissione parte con la consueta nonchalance, e tra il palco e le quinte (la distinzione è nulla) lo seguiamo in diretta. Non c’è trucco, non c’è inganno. C’è, tuttavia, un narratore: il Guy Noir di Kevin Kline, occhio privato con le pezze al culo che apre il film nel più hopperiano dei diner e ci accompagna fin dentro al teatro, dove è ingaggiato come contabile. Kline offre una performance irresistibile che sbeffeggia l’hard boiled e lo sposa alla commedia sofisticata; tuttavia, nel contesto di un film altmaniano il merito è sempre collegiale. La ridda di nomi che scorrono sui titoli di testa (un panorama di periferia, un’antenna, brusio radiofonico: si fa notte) lasciano senza parole e premiano, nessuno escluso, le aspettative più elevate. Le sorelle Rhonda e Yolanda Johnson (Meryl Streep e Lily Tomlin), i due cowboy da barzelletta Dusty e Lefty (Woody Harrelson e John C. Reilly), il vecchio Chuck Akers (L.Q. Jones), la stage manager Molly (Maya Rudolph)… senza soluzione di continuità, e con il piglio da commedia umana a cui ci ha sempre abituato, Altman dà voce a tutti, li alterna e li sovrappone, ci cuce nella trama come se nulla fosse.

A Prairie Home Companion è un juke box calibratissimo tutto giocato sulla leggerezza, con svariati momenti di ilarità. Quasi un On the air , ma sobrio e riuscito. Eppure c’è qualcos’altro nell’aria. Qualcosa di cui un altro Bob – Fosse – amava permeare i musical. Il tempo che passa, le cose che finiscono, in parole povere la buona, vecchia, Oscura Signora. Che qua appare nei panni di Virginia Madsen, femme fatale impassibile vestita di un trench immacolato. Che lo crediate o no, è un angelo. La donna di bianco vestita parla un po’ con tutti e si prende chi è arrivato alla fine della corsa. Ma anche in caso di morte, si sa, lo spettacolo deve andare avanti, e Garrison Keillor si rifiuta di dare addii o leggere necrologi. A Prairie Home Companion è intriso di questo spirito, e lo show – in radio e sullo schermo – pare non voler finire mai. Come i film di Fellini. Nessun gran finale che non sia una canzone, ancora, e ancora, con la macchina da presa in moto e il montaggio che dissolve al nero quasi per caso, sull’orchestra. Radio days da antologia. Applausi scroscianti e un cartellone si leva dal pubblico: Orso subito! Parole sante.

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