E’ un esilarante andirivieni tra finzione e realtà l’ultimo film della giovane regista statunitense Jerusha Hess, che in coppia con il marito Jared Hess ha firmato poco più che ventenne la rivelazione Napoleon Dynamite, presentato nel 2004 al Sundance Film Festival e capace di incassare più di 40 milioni di dollari con una produzione di soli 400 mila. Alla ricerca di Jane ha tutti gli ingredienti della commedia romantica ma diventa subito – complice un plot di arguta comicità – la sua dissacrazione: la protagonista Jane vive nell’America di oggi un sogno ottocentesco legato alla sua scrittrice preferita, l’Austen sua omonima, trasformando la casa in un santuario ispirato a quei romanzi letti e riletti fino a conoscerli a memoria, fino a non accontentarsi del mondo reale per trovare la felicità, che a trent’anni suonati passa anche e soprattutto per un uomo, come non mancano di ricordarle le amiche.
Qualcuno però sembra assecondare le utopie esistenzial-letterarie della nostra candida eroina, basta solo investire tutti i risparmi di una vita per partire alla volta del Regno Unito, dove quel mondo regency ormai perduto rivive come per magia nel regno di Austenland, parco tematico dedicato a chi insegue l’amore – in ogni sua forma – fuori dalla vita vera. Quando Jane atterra a Londra colma di speranze, certa che per una settimana rivivrà tutte le emozioni dei suoi amati libri, si rende subito conto che l’intera operazione è molto più commerciale che intellettuale, costruita per attirare donne più o meno mature abbagliate dal trastullarsi tra addominali scolpiti e lusinghieri complimenti sussurrati con vibrante forza recitativa da attori prezzolati. A sorpresa, però, nel regno della finzione per antonomasia fanno irruzione i sentimenti veri, o almeno ciò che vero può sembrare ma forse non è. L’altalena amorosa spinta avanti e indietro fino all’ultimo minuto è riempita e colorata da una serie di caratteristi – la giunonica Jennifer Coolidge fra tutti – prestati con straordinaria verve mimica alla parodizzazione di tipi umani meschini e superficiali.
Si parla e si veste in stile ottocentesco ma qualche metro più in là un modernissimo schermo piatto riporta lo squallore ai giorni nostri, mostrando senza mezzi termini cosa si nasconde dietro un’illusione, che sia quella letteraria o cinematografica o più sottilmente quella dell’ipocrisia umana, come suggerisce l’etimologia della parola attore, in origine ypocrites.
Il lieto fine non risparmia fino ai titoli di coda lo smascheramento del posticcio: nel meraviglioso mondo di Austenland non si nascondono più vizi e guadagni tra pizzi, ricami e romantiche cavalcate, il kitsch è dichiarato con contagiosa euforia perché un sogno si può comprare, basta solo non confonderlo con l’amore vero. La regista non lascia comunque il pubblico orfano del classico lieto fine, firmando una pellicola – tratta a sua volta da un’opera della scrittrice Shannon Hale – di godibilissima visione, riuscendo a innovare gli stereotipi del genere cinematografico cui appartiene senza stravolgerlo ma al contrario vivacizzandolo con arguzia e spirito critico.