“Non crediate il destino sia più che l’intensità dell’infanzia; quanto spesso superavate l’amato, respirando, respirando dopo corsa beata, verso niente, nell’aperto“
(Rainer M. Rilke – Elegie Duinesi)
Con Agnès Varda e “Little fugitive” nel cuore, Stéphane Demoustier realizza questo piccolo miracolo di sessanta minuti, aiutato dai figli Cléo e Paul, gemelli di tre anni al momento delle riprese.
Accompagnati dalla tata (Elsa Wolliaston) nel grande e affollato Parc de La Villette di Parigi, i due bambini scoprono le piccole meraviglie del luogo e improvvisamente si perdono mentre giocano a nascondino.
Cléo si allontana dall’area dove si trova il fratello, attratta da nuove, piccole sollecitazioni.
Da parte sua Paul cerca di capire dove sia finita “quella peste”, prendendosi malvolentieri i rimproveri della tata per non aver marcato stretto la bambina.
I tre percorsi si separeranno in una vera e propria scoperta del mondo, osservata ad altezza bambino con quella curiosità nomadica che Walter Benjamin, prima ancora di assegnarla all’attività esplorativa ed associativa del flâneur nel contesto urbano, individuava nella tendenza del fanciullo a sottrarsi dalle imposizioni di qualsiasi percorso costituito. Un nuovo rapporto, reciproco e discontinuo, con gli oggetti e lo spazio, che trasforma l’incontro con cose e persone in un gioco combinatorio dove tutto è possibile.
Demoustier non teorizza, ma cerca di immergersi in quello sguardo disincarnato da qualsiasi progettualità ideologica, delineando a poco a poco le caratteristiche di un racconto (a)morale, dove emerge una Parigi post-attacco, tra le armi esposte dall’esercito, i reticolati che separano zone sensibili e questo esteso parco trasformato da adulti e adolescenti che hanno perso il valore condiviso dell’attenzione.
Gli unici capaci di offrire nuovamente un senso di permeabilità, sono i gesti fuori controllo di Cléo e Paul.
Nel luogo dove tre anni fa era esplosa la febbre Pokemon Go, Demoustier filma questi ragazzi impazziti che corrono da una parte all’altra, con gli occhi fissati sullo schermo dello smartphone, mentre attraversano il percorso separato dei due bimbi, continuamente sospesi tra meraviglia e continua ri-funzionalizzazione dello spazio; è in quel senso di disorientamento crescente che coincide l’inestricabile coincidenza tra bellezza dello sguardo e l’orrore di trovarsi improvvisamente soli.
I bambini cercano un appiglio, un consenso, riconoscendo il peso di una guida in chiunque possa ascoltare le loro esigenze in quel dato momento; quella richiesta di sostegno si perde quasi subito, nella tendenza inesorabile a dismettere qualsiasi forma d’autorità.
Da questo punto di vista il film di Demoustier coglie, con purissima e inintenzionale crudeltà, quel contrasto tra libertà e costrizione legato al primo trauma della perdita.
Nel lavoro con i propri figli, come ha avuto modo di dichiarare, non c’era ovviamente niente di scritto, tranne quelle “esche” necessarie, che hanno consentito di ottenere una reazione tra realtà e dimensione finzionale.
L’unico frammento “scritto” dell’intero film è quello che coinvolge Louise (Vimala Pons) e David (Anders Danielsen Lie) nella loro storia d’amore interrotta.
L’incontro di Louise e Cléo attraversa numerosi registri, dal sincero spaesamento della donna nel voler aiutare una bimba senza genitori, alla funzione di scudo che questa assume attraverso la reazione del tutto istintiva della giovane donna, nel tentativo di difendersi da quei sentimenti soverchianti che ancora prova nei confronti dell’ex compagno.
Demoustier non ci fornisce troppi dettagli, se non attraverso gli oggetti e gli scarti di una realtà vissuta; nel caso di David e Louise si tratta di un sacco pieno di scarpe, ennesima occasione per Cléo di trasformare la realtà, giocando con nuove forme e nuovi colori. La bimba viene filmata attraverso continui stati di passaggio, come se lo spazio potesse esser percorso senza le barriere fisiche ed emotive che la comunità ha eretto per difendersi dagli altri. Quando Louise si addormenterà esausta, Cléo imboccherà la sua nuova fuga verso la sera, trovando una nuova occasione di meraviglia in una scatola di luci al neon sagomate.
Nella colonizzazione di “immagini senza senso” che ha eroso irrimediabilmente il mondo unitario dell’immaginazione infantile, Demoustier sembra lasciarsi andare alla contemplazione della saggezza innata dei propri figli, senza indicarci niente che loro già non sappiano, in accordo con un altro piccolo illuminante film visto qui alla Berlinale nella sezione Forum e di cui parleremo presto: il debutto della giovane regista polacca Jagoda Szelc.
Nella naturalezza vitalistica di Cléo e Paul scopriamo il rifiuto, l’orrore, il trauma e la libertà dove non avremmo mai pensato di scorgerli, come se l’accordo più intimo con quello stato dell’esistenza fosse una falda sepolta da una stratificazione e da un indurimento progressivo della percezione.
Pensare la vita per tappe è una grande sciocchezza e il ritorno all’infanzia è forse davvero un cerchio che si chiude, per aprirsi nuovamente ad una riorganizzazione interiore del mondo empirico.
Nello sguardo atterrito di Clèo quando si allontana sempre di più dai suoi affetti, spinta da una forza invisibile, c’è tutta la rabbia e la resistenza dell’io alla libertà da qualsiasi giogo, anche quello della propria coscienza, un continuo oscillare tra la perdita di se nelle fasi della crescita e la magnifica gratuità dell’errare.
La degradazione della vita individuale che ci domina nell’accettazione uniformante di regole sociali, lascia indietro quel bambino che ha agito individualmente la scoperta del mondo e della propria coscienza.
I lampeggianti della vigilanza interrompono il sogno, mentre Parigi sprofonda nella notte.