domenica, Dicembre 22, 2024

Altman racconta Altman, a cura di David Thompson, Kowalski editore, ottobre 2007.

Edito negli Stati Uniti prima dell’uscita di Radio America, ma arrivato in Italia solo lo scorso ottobre-non a caso dopo la scomparsa del regista, il famoso rilancio del cadavere che, tristemente, frutta -questo libro formato intervista si rivela, nella semplicità quasi asettica che lo compone, un utilissimo strumento per entrare nell’opera di uno dei registi americani più rappresentativi degli ultimi trent’anni.
Altman, stimolato docilmente dall’amico David Thompson, conosciuto sul set di Gosford Park, quando questi realizzava per conto della BBC un documentario sulla lavorazione del film, parla di sé e dei propri film, evitando accuratamente il tono dell’analisi critica e dell’impostata esegesi. Perchè quello che conta e che ha sempre contato per lui è l’atto di fare film, tutto il resto, riprendendo una sua espressione tipica, sono tutte stronzate.
Il ritratto che viene fuori è a 360 gradi e manchevole di tutto, completamente imperfetto come lo sono i suoi film, del resto. Terminata l’esperienza all’Accademia militare e fallito il tentativo di diventare ricchissimo con la geniale impresa della marchiatura di cani, Altman si avvicina alla macchina da presa attraverso i filmati commerciali per la Calvin Company a Kansas City, sua città natale. Forse proprio da quei lavori su commissione privi di alcun interesse artistico è nato il germe del suo rigore iperattivo, per cui ogni film vale la pena di essere girato, e che gli ha permesso di sopravvivere egregiamente ad Hollywood, capovolgendo ogni progetto che si trovava per le mani.
“C’è stato un periodo in cui la mia unica pulsione era quella di realizzare un film. E se qualcuno mi avesse detto: ‘Beh, deve essere un film su Dracula’, avrei risposto: ‘D’accordo, lo faccio.’ Non sono uno che si siede a pensare: ‘Ah, ecco questa è l’ispirazione delle Muse e dunque è quello che farò adesso’.” ((Cit. p. 211))
Il segreto è essere bugiardi, tenere il piede in due staffe, far buon viso a cattivo gioco. “E io sono un bugiardo. Quando mi dicono: “Farai questo film seguendo la sceneggiatura?’ io rispondo: ‘Certo che sì. E’ eccezionale ne verrà fuori un film fantastico.” ((Cit.p.159)) Altman ha bazzicato Hollywood- regno dove domina la cupidigia, da una sua definizione- fin quando gli è stato necessario, rubando i copioni alla loro statica finalità per seguire semplicemente il suo istinto, che spesso lo ha portato dalle parti giuste:
“Cerco di fare quello che vogliono perché in realtà non lo sanno neanche loro cosa vogliono, sanno solo che anelano ad un risultato. E io sento che se facessi quello che mi chiedono sarebbe un fallimento, e non ne sarebbero soddisfatti. Quindi sono diventato una specie di doppiogiochista.” ((Ibidem.))
Un’esempio è Mash, suo primo film di successo con il quale si conquistò la Palma d’oro a Cannes nel 1970, dove tenne a distanza la produzione per tutta la lavorazione del film, convincendoli che tutto stava andando secondo i patti, (il segreto per essere lasciati liberi di fare quello che si vuole, racconta, è rispettare sempre i tempi e il budget, colpire cioè il mostro sfruttando le sue stesse armi) realizzando invece uno dei film più spiazzanti che la Fox abbia mai portato sugli schermi, salvandosi dai già previsti tagli solo grazie all’entusiasta adesione del pubblico alla prima.
Per Altman non è stato difficile accettare qualsiasi copione per il semplice fatto che la storia, la trama gli è necessaria fino ad un certo punto, semplice canovaccio per ricordare il punto di partenza e da cui, inevitabilmente, allontanarsi per parlare di altro,o, meglio, creare un intreccio di percorsi in cui lo spettatore è libero di perdersi, seguendo facoltativamente il proprio film. “Ho sempre trovato fantastici i radiodrammi perché uno ascolta, e quando si sente una porta cigolare ciascuno si immagina una porta diversa. Qualunque porta fosse, era comunque la tua porta. Nei miei film volevo costringere il pubblico a fare un’esperienza personale dello schermo, perché non gli avrei fatto necessariamente sentire tutto ciò che veniva detto .” ((Cit.p.40))
Motivo principe di discussione con le case di produzione è stato infatti, a partire da California Pocket, l’uso del Lion’s Gate tracks, il mixer ad otto tracce brevettato dallo stesso Altman che permette di rendere fedelmente il caos reale della conversazione quotidiana in cui le voci si sovrappongono e spesso si perdono pezzi di discorso per strada, un’assurdità per il cinema hollywoodiano, in cui tutto è scandito e finalizzato per antonomasia. In uno sbotto di modestia (caratteristica che non si può dire gli appartenga, e non ci tiene a nasconderlo) ammette di non essere stato il primo, come tutti usano dire, a far parlare la gente tutta insieme, ma che il vero capostipite è stato Howard Hawks, in un film da lui solo prodotto, La cosa, diretto dal suo montatore Chris Nyby. Questo non toglie che Altman abbia perfezionato il meccanismo, e che opere corali come Nashville o Un matrimonio ne abbiano celebrato degnamente l’utilizzo, diffondendo i punti di ascolto in direzioni diverse e permettendo ad ognuno, causa l’impossibilità di comprendere tutto, di avere una diversa visione della cosa rappresentata. “Secondo me al pubblico viene servito cibo precotto. Gli viene piazzato il piatto di fronte e non deve fare niente, così o si addormenta oppure non mostra nessun interesse. Se invece riesco a fare spostare fisicamente gli spettatori-e durante le proiezioni mi siedo sempre dietro per guardare la nuca della gente-se vedo che le teste ballonzolano, allora sono sicuro che la gente è entrata dentro il film.” ((Cit. p. 205))
Una specie di ribaltamento positivo della teoria brechtiana dello straniamento: l’unico modo per essere dentro ad un film, secondo Altman, è lavorarci in mezzo, muoversi con lui, non subirlo passivamente catturati dalla storia. Nessun intento di indottrinamento sociale però, solo una forma più fine di puro intrattenimento cinematografico.
Altman parla di cosa lo ha portato a realizzare un film, della storia produttiva, snocciolando aneddoti su attori, amici e nemici, (gustoso quello su Mastroianni, che per Pret-à-porter esigeva la sua parrucchiera personale, confidando più avanti ad Altman che non era per vanità e capriccio, ma perché la mattina, a colazione, sentiva il bisogno di parlare in italiano con qualcuno), parlando ogni tanto della tecnica ma non discutendo mai questioni più o meno autoriali, fedele alla sua teoria per cui i film si fanno, non ci si questiona su.
L’intervista, realizzata quando il regista stava montando The Company nel suo studio di New York nel 2002, solo pochi anni prima della sua scomparsa, e il fatto che abbiamo potuto leggerla soltanto dopo di questa, ci lascia un retrogusto d’amarezza per l’entusiasmo che Altman ancora mostra verso il suo lavoro nel cinema- medium semiartistico,come egli stesso definisce- accennando a progetti futuri con una verve insolita per un-seppur splendido-quasi ottantenne.
Si può solo pensare che lui stesso avrebbe commentato che l’unica fine sicura è quella, come ha precisato parlando del suo sprezzo per i lieto fine: “Personalmente non conosco i lieto fine. L’unica fine che conosco per certo è la morte, e di solito non è associata alla felicità. Ci sono finali ambivalenti, ma per me si tratta comunque solo di un punto di arresto, non di una vera fine.” ((Cit.p.165))

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