Franck Khalfoun è uno degli autori “horror” più interessanti degli ultimi dieci anni. Cresciuto sotto l’ala protettiva di Alexandre Aja, che ha prodotto per il regista parigino “P2” e lo splendido “Maniac“, remake del film diretto da William Lustig nel 1980, ha continuato con una serie di progetti marginali a sperimentare sulla forma e i formati del cinema di genere, forzandone i limiti e utilizzandoli come veicoli per un discorso personale sulla solitudine post-digitale.
Dopo lo stimolante I-lived, Amityville, il risveglio, è la prima collaborazione di Khalfoun con la Blumhouse di Jason Blum e non sarà l’ultima; in preparazione c’è un nuovo horror intitolato Solo (noto anche con il titolo di Prey), interpretato da Logan Miller e Kristine Froseth e ambientato su un’isola misteriosa e mortale; al centro ancora una volta la figura di un non integrato.
Del franchise Amityville, che conta 19 capitoli, a Khalfoun interessa relativamente e ce lo fa sapere senza indugi attraverso un paio di battute che idealmente cercano di connettersi allo spirito del film di Stuart Rosenberg, prendendosi gioco di quello diretto da Damiano Damiani e chiudendo il discorso sul remake del 2005; caustico e senza alcuna propensione all’omaggio è probabile che sia questo il motivo per cui la Weinstein Company ha ritardato considerevolmente la distribuzione del film nelle sale, pronto ormai dal 2015.
Imbevuto di cultura anni ottanta, Khalfoun, oltre che al film di Rosenberg sembra riferirsi al Patrick dell’australiano Richard Franklin scritto da Everett De Roche, concentrando la sua visione sulla vita e sulla morte nel corpo di James (Cameron Monaghan) primogenito della famiglia appena trasferitasi nella grande casa di Amityville e costretto in uno stato vegetativo dalle ossessioni parareligiose della madre (Jennifer Jason Leigh), contro il volere della sorella Belle (Bella Thorne) che vorrebbe porre fine a quelle inutili sofferenze.
Ma rispetto al cinema fine settanta, Khalfoun non sembra interessato a scatenare l’inanimato attraverso la poetica degli oggetti che muoveva quei film e sviluppa una sua personale riflessione sul fine vita che si riconnette al lavoro di Rosenberg solo da una soggettiva squisitamente famigliare, confinando gli elementi soprannaturali in uno spazio onirico legato alle numerose manifestazioni della coscienza. L’orrore è quello del corpo senza vita di un malato terminale, la cui sopravvivenza viene garantita da un legame egoistico e ossessivo che trasforma in metastasi e smania carnale la morte dello spirito.
Ribaltando la visione ideologica cattolica, Khalfoun ci suggerisce più volte che l’accanimento terapeutico è una discesa verso l’inferno e non ha niente a che vedere con Dio. Trascinare James fuori dal cerchio magico che lo tiene in vita è come riacquisire la dignità della morte attraverso la percezione di un corpo deforme in cerca della pace; una delle sequenze più commoventi e chiarissime dell’intero film è incentrata su questo aspetto e sostituisce la prospettiva satanica con una disperatamente umana.
Dopo Richard Kelly, Khalfoun recupera un direttore della fotografia come Steven Poster, attivissimo durante tutti gli anni ottanta e autore delle luci e delle atmosfere per piccoli film di culto già crepuscolari e marcatamente politici come Dead & Buried di Gary Sherman e Blood Beach di Jeffrey Bloom.
Non importa che il film sembri smorzare il ritmo nella costruzione della tensione, che dissolva ex abrupto con i totali della Amityville mansion nei momenti in cui le convenzioni horror potrebbero esplodere. Il cineasta francese sospinge la materia cinefila nell’angolo della nostalgia lontana, distanziandosi dall’ipertrofia virale e sovrapponendo passato e presente con i due segmenti in stile found footage che aprono e chiudono il film.
Le luci di Poster, come accadeva in Maniac con Maxime Alexandre (altro talento francese acquisito dall’industria statunitense), concorrono alla creazione di uno spazio mentale, rievocando le luci morbide del cinema fine settanta per evidenziarne le qualità psichiche più di quelle strettamente formali e filologiche.
Ecco perché il cinema di Khalfoun, non così distante nelle intenzioni da quello di Fulci, si apre ad un lirismo struggente che osserva la morte come ultima spiaggia di assoluta libertà dalle crudeltà ideologiche imposte.