Nel vortice impetuoso ed esagerato che contraddistingue “Ammore e Malavita”, diversi stereotipi sulla napoletanità vengono sulla carta ridiscussi e messi alla berlina, rimanendo de facto in un limbo non ben definito, tra eccesso visivo (quello del videoclip anni ’90) e critica ad un certo cinema e a certa serialità rispetto alle quali non si propone una valida alternativa.
Una città come Napoli è stata oggetto nell’ultima decade di un certo numero di film, serie e libri, dei quali si fa portavoce il caso letterario di “Gomorra”, il romanzo di Roberto Saviano che è divenuto prima film (nel 2008 grazie a Matteo Garrone) e poi serie televisiva.
Un format che si è “saputo vendere” e che racconta sicuramente un volto del capoluogo partenopeo amaro fatto di violenza e criminalità, aspetto che i Manetti Bros. hanno l’intento in una certa misura di contestare: è così che nel gioco “pulp” di “Ammore e Malavita”, il quartiere napoletano de Le Vele diviene un’attrattiva per turisti stranieri pronti a scattare foto e ad entusiasmarsi per uno scippo in motorino, realtà e assurdo si mescolano come in un musical.
Il format musicale prende avvio sin da subito, combinando la tradizione della canzone neomelodica e la drammaticità unita ad un senso del trash non indifferente, con uno stile inconfondibile dai colori saturi e trasfiguranti che ha contraddistinto quello dei videoclip anni ’90.
Se l’intenzione dei Manetti era di omaggiare un film come “Grease”, “perfetto per il suo equilibrio tra musica e parlato”, pare invece che abbiano preso a piene mani dal cinema di Roberta Torre, quello degli esordi di “Tano da morire” (1997) e “Sud Side Stori” (2000), nei quali ricerca e sperimentazione, consapevolezza di una conoscenza profonda della cultura popolare erano elementi che si accordavano perfettamente con uno spirito ironico, oltraggioso e umanissimo.
I Manetti hanno raccolto questa eredità, il cui peso risulta decisamente troppo. La forza e l’ironia raccolta nei primi film della Torre raccontavano già tutto, mostrando le diverse sfaccettature agro-dolci del sud Italia, a partire da un forte background teatrale spingendo il piede sull’acceleratore verso una satira grottesca e sferzante.
Rimane al contrario in superficie “Ammore e Malavita”, tentando il tutto e per tutto con siparietti e citazioni cinematografiche: i modellini di Delorean o di Aston Martin dentro le quali Claudia Gerini nasconde i diamanti tenuti in una panic room nella quale si rifugia con il marito Vincenzo, un impietoso e superficiale richiamo Fincheriano.
Per questo il film non riesce ad andare oltre i richiami e a fornire una valida alternativa a quel cinema o a quella serialità che le esperienze di Roberto Saviano hanno contribuito a creare, probabilmente acuendo fortemente la consapevolezza sulla criminalità e sulla violenza consumati a Napoli, una città che senz’altro ha molti volti e molteplici sfaccettature comprese quelle più positive, ma che purtroppo (come nel resto d’Italia in misura più o meno forte) deve ancora fare i conti con la permanente pervasività della criminalità organizzata.
Rimane derivativo e ancorato al genere, qui tra il gangster-movie e il poliziesco anni ’70, il cinema dei Manetti bros. permane in un dubbio limbo nel quale l’eredità del passato si fa troppo pesante per poter diventare “qualcos’altro” e andare avanti, avendo peraltro contribuito di per sé all’incancrenirsi di certi stereotipi (vedi ad esempio la figura dell’Ispettore Coliandro/Giampaolo Morelli, qui nei panni di Ciro), che non riescono a superare la dimensione parodica, quand’anche il loro cinema si propone di esplorare il fantascientifico (“L’arrivo di Wang”) o l’horror (“Paura 3D”).