martedì, Novembre 5, 2024

Annabelle 2: Creation – la recensione

James Wan affida a David F. Sandberg la regia del secondo Annabelle dopo la discutibile prova di John R. Leonetti. Al suo secondo lungometraggio come regista, dopo Lights-out terrore nel buio, Sandberg collabora con lo sceneggiatore Gary Dauberman, penna del primo Annabelle, della prossima versione di “it” diretta da Andy Muschietti e del nuovo spin-off dal mondo di The Conjuring, l’atteso The Nun, creatura emersa nel secondo capitolo dedicato alle avventure paranormali dei coniugi Warren, assegnata alle “cure” del promettente Corin Hardy, autore del notevole The Hallow
Il tentativo di Wan nel creare un diramatissimo ipertesto che si estenda da un film all’altro, così da dialogare in modalità asincrona con il tempo del racconto, gli consente di creare un prequel dentro il prequel, risolvendo alcune suggestioni rimaste aperte nel primo capitolo di Annabelle e di sollecitarne altre che anticipano la genesi dei nuovi personaggi. L’ecosistema è quello degli oggetti inanimati e dei giocattoli che alimentano la collezione dei coniugi Warren; il nuovo capitolo di Annabelle, come gli altri spin-off, cerca di individuare l’origine del male e il momento in cui comincia ad annidarsi nel cuore delle cose. La paura emerge un momento prima che l’oggetto diventi un portale capace di far passare le energie negative, perché è nella relazione con il mondo fisico che la sua parodia o miniaturizzazione (pistole, lanterne magiche, piccoli simulacri di protocinema, case di bambola, bambole) spalanca le possibilità di un mondo kleistiano, capace di far luce sul nostro. La famiglia, come accade in tutto il cinema del regista/produttore di origini malesi, è il nucleo centrale di tutto l’amore e l’orrore possibile. 

Nel film di Sandberg Anthony LaPaglia interpreta Samuel Mullins, un fabbricante di bambole attivo nell’America rurale degli anni 40. Insieme alla moglie Esther (Miranda Otto) accudisce l’adorata Bee (Samara Lee), una bimba di sette anni molto vivace e ricettiva che presto morirà a causa di un tragico incidente sulla strada. 
Più di dieci anni dopo, la coppia deciderà di aprire la casa a sei adolescenti orfane e alla loro tutrice, Sorella Charlotte (Stephanie Sigman), una sorta di antagonista positiva della suora mostruosa che sarà al centro del film di Corin Hardy. 

Mentre Esther Mullins vive ritirata nella sua stanza, invalida, nascosta da un velo, con una maschera che ricorda numerose storie dell’occhio e che le copre metà volto, Samuel accetta di ospitare il gruppo di ragazze imponendo l’utilizzo limitato della casa: una delle stanze non può essere aperta. 

La violazione di questa regola da parte di Janice (Talitha Bateman), la ragazza fisicamente più fragile del gruppo a causa di un’invalidità motoria legata alla poliomelite, scatenerà le forze del male all’interno della casa, con una lenta e inesorabile manifestazione che coinvolgerà gli oggetti, i giocattoli, il montacarichi domestico, e tutta la dimensione familistica che è al centro del cinema di James Wan.

Sandberg capitalizza quella relazione per lo più scopica tra visibile e invisibile che mancava del tutto nel film di Leonetti, sperimentata nel suo esordio cinematografico, allineandosi in modo più preciso al cinema dello stesso Wan, con una maniacale attenzione allo spazio, alla vita dell’inanimato e agli elementi del quotidiano.

I personaggi derelitti e le disfunzioni famigliari che erano al centro del secondo The Conjuring sembrano concentrarsi nella figura di Janice, il cui male di vivere diventa un’elegia della solitudine come per il vecchio incapace di separarsi dalla sua poltrona nel Caso Enfield.

I più deboli e i rifiutati, in una sorta di gustosissimo rovesciamento della visione cristiana, diventano cibo per il demonio, l’unico in grado di ascoltare e di parassitare il loro dolore. I momenti più riusciti del film sono proprio quelli in cui Janice cerca di esplorare il solo mondo che è in grado di percorrere, mentre le sue compagne giocano all’aria aperta, lasciandola isolata in casa con il suo handicap, ma anche tutto il lirismo nero che descrive la solitudine di Esther, la cui maschera evoca i mondi di Franju in un modo forse sin troppo esplicito, ma assolutamente suggestivo. 

La scelta di assegnare la direzione della fotografia a Maxime Alexandre, uno dei principali autori di immagini “horror” del cinema francofono degli ultimi quindici anni (da Haute tension a Maniac), conferisce al film di Sandberg un’aura più sporca, ma anche legata alla qualità realistica e allo stesso tempo onirica della pittura di Andrew Wyeth. Non c’è l’intenzione esplicita di creare un mondo dilatato e amplificato dalla coscienza come in The Reflecting Skin di Philip Ridley, ma le suggestioni, anche in termini più squisitamente paesaggistici e coloristici, sono quelle. 
Dalla fattoria al pozzo, dal sole accecante all’isolamento di Janice, fino all’astrazione suggerita dai giocattoli rispetto alla loro capacità di comunicare con l’altra dimensione, Sandberg tiene in mano una materia che appartiene a James Wan, confezionandola con una serie di riferimenti più sicuri e per certi versi addomesticati, senza rischiare niente di nuovo.

In ogni caso, molto più asciutto, sottrattivo e convincente della deludente deriva favolistica di Mike Flanagan

 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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