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Annabelle di John R. Leonetti: la recensione

Se c’era qualcosa di buono nel sopravvalutato The Conjuring era sicuramente la ricostruzione di un’aura nostalgica che attraversava  il film in modo tutto sommato coerente. Con un rigore filologico di superficie James Wan era riuscito a ridurre gli aspetti più kitsch del suo cinema, avvicinandosi allo spirito visivo degli anni ’70  con un piede ancorato nel decennio precedente, quello delle case infestate, dell’effetto shock e di un cinema sostanzialmente illusionistico, più moderato rispetto alla filosofia circense di William Castle, meno filosofico dei vari Wise, Clayton, Rosemberg; insomma, il divertimento era per lo meno garantito.

Annabelle prende le mosse da questi spunti nella forma dello spin-off più che del prequel sfruttando come motore narrativo una delle storie collaterali raccontate dai coniugi Warren, così da cancellare dal plot la presenza dei due parapsicologi.

John R. Leonetti, che ha diretto un numero ridottissimo di film, è in realtà direttore della fotografia a tempo pieno e ha curato proprio quella per il già citato film di James Wan, da cui cerca di recuperare la stessa atmosfera vintage, con una certa attenzione al dècor, agli oggetti, ai costumi e sopratutto all’ambientazione famigliare, scegliendo gli anni sessanta come decennio elettivo e amplificando i riferimenti formativi della cultura medio borghese americana con continue interferenze della finzione televisiva nello spazio privato, come tutta la sequenza che mette in relazione la percezione della casa infestata dal male da parte della protagonista, con le tragedie quotidiane di General Hospital.

È quindi abbastanza chiara l’operazione di Leonetti insieme ai produttori Peter Safran e James Wan, ovvero la stessa crew di The Conjuring, nell’estendere le caratteristiche di un marchio di fabbrica. Il film è ambientato a Santa Monica nel ’60 e descrive quello spazio famigliare che è al centro delle ultime produzioni di Wan, incluso l’ultimo Insidious, saturando il racconto con gli oggetti dedicati al gioco infantile. Mia (Annabelle Wallis) e John (Ward Horton) sono una coppia appena sposata, lui sta ancora studiando per la specializzazione in medicina, lei aspetta una figlia. Per farsi perdonare un piccolo malinteso, John regalerà alla giovane moglie una vecchia bambola dei ricordi, da sempre desiderata da Mia. Mentre il menage prosegue normalmente, Leonetti inserisce due frammenti premonitori, il primo è la cronaca di quei giorni, osservata distrattamente da uno schermo televisivo e legata agli efferati omicidi di Cielo Drive per mano di Charles Manson, il secondo sembra una riproposizione di quella stessa dinamica omicida, percepita come un flash subliminale dalla finestra di fronte alla camera dove dorme la coppia; è l’inizio di una tragedia domestica che dalla porta accanto si trasferisce in casa, con una sovrapposizione diretta della realtà mediatica su quella quotidiana. Due fuoriusciti da una setta pugnaleranno a morte Mia e John senza causarne la morte ma mettendo a repentaglio la buona riuscita del parto; tra i due, la donna, stringerà la bambola di Mia tra le braccia, contaminandola con il proprio sangue e di fatto possedendo l’oggetto inanimato.

Da qui in poi Leonetti si sbizzarrisce con tutto il campionario dell’horror fine sessanta primi settanta, citando per esempio Rosmary’s Baby e l’Esorcista per l’atmosfera di fondo e contaminando il tutto con numerosi riferimenti a quei film che pongono al centro una bambola malvagia, riferendosi quindi al cinema più vicino agli anni ’80 (Magic, Black Devil Doll from Hell , Dolls, Child’s Play…); il tutto senza una grande capacità di controllo del materiale. Non si tratta solamente della politica a basso costo del film, evidente anche da alcune sequenze che introducono ex abrupto una versione più sciatta e tirata via del digitale, ma di una sconnessione troppo forte tra intuizioni e risultati. Annabelle in fondo mostra la debolezza di tutto il recente percorso di James Wan, perso dietro al tentativo di recuperare le istanze sociologiche e antropologiche di quarant’anni fa, raccontando una famiglia che non esiste più e che nel frattempo è mutata in qualcosa di diverso, sviluppando altre paure e insicurezze. Ma al di là del tentativo di costruire un horror sulla maternità completamente fuori tempo massimo per modi e toni, Leonetti non ha lo spirito ludico di Wan nè la sua capacità di intrattenersi con il dispositivo horror come farebbe un buon prestigiatore; Annabelle non penetra nel nostro inconscio come dicevamo, ma quel che è peggio, non diverte, non spaventa, non gioca con il nostro sguardo, sempre irrimediabilmente in anticipo rispetto ad uno “spettacolo” già visto.

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