Come era accaduto per Enemy, la fonte letteraria che ispira l’ultimo film di Denis Villeneuve, diventa una riflessione personalissima sulla memoria, totalmente svincolata dalle sue origini e coerente con il percorso del talentuoso cineasta canadese.
Arrival ha tra l’altro più di un punto di contatto con l’universo circolare che Villeneuve si è inventato partendo dal romanzo di Saramago ed è quindi un film altrettanto palindromo, intimo e sospeso sull’abisso del nucleo famigliare, specchio attraversato da entrambi i lati in tutta la sua filmografia.
Che tipo di science fiction è quella di Villeneuve allora, alla vigilia del suo Blade Runner prodotto da Ridley Scott?
Dovessimo far fede alle suggestioni visive, ai motivi grafici e ad alcuni topoi narrativi, non finiremmo di allineare riferimenti su riferimenti, ma Arrival non cade nella trappola di quella fantascienza filosofica che, per esempio, con Christopher Nolan cerca di tradurre il pensiero scientifico nell’immagine recintata dalla parola e dai concetti, perché l’esplorazione di un linguaggio durante tutte le fasi di apprendimento, qui diventa ricerca combinatoria e aperta tra luce e oscurità, immagine e pensiero, materia immaginale e memoria.
Rispetto a quello di Kate Macer , il percorso della dottoressa Louise Banks (Amy Adams) sembra attraversare lo stesso tunnel senza quel “terrore del girovagare” che mette al muro l’agente dell’FBI, mentre il suo dirigersi verso la luce ha una qualità ugualmente accecante rispetto al buio assoluto che sperimentiamo in Sicario.
La “bestia” che sovrasta il globo attraverso dodici diversi siti sembra occupare la stessa posizione perturbante della forza invisibile nascosta nelle viscere del Messico e l’apparizione degli eptapodi crea lo stesso spaesamento percettivo provocato dai ragni che sovrastano Toronto immersa nella nebbia.
Come in tutti i suoi film, Villeneuve entra ed esce da uno stato all’altro fino ad individuare ulteriori aperture in quell’apparente avvitamento della memoria e dello sguardo su se stessi. Non importa se la dimensione è quella onirica oppure la tirannia del ricordo, perché entrambi i lati sono leggibili e possibili come il nome di “Hannah”, la figlia della dottoressa Banks sospesa tra la vita e la morte.
E quell’esperienza di essere già morti che il Cinema ripete continuamente, viene osservata e riattivata da Villeneuve davanti e dietro ad uno schermo, con un lavoro sulla memoria e sul montaggio che dialoga con il cinema di Nicolas Roeg in modo più profondo rispetto al decòr Kubrickiano che gli si vorrebbe attribuire.
Passato e presente, come nella genealogia della famiglia Marwan, si influenzano a vicenda senza assumere una connotazione evolutiva e binaria, tanto che quello slittamento di senso individuato con Incendies attraverso una lettura orizzontale del montaggio parallelo, viene riproposto da una prospettiva che parla il linguaggio dei sentimenti e della fisica nello stesso modo in cui il cinema di Chris Marker e quello di Hollis Frampton collegavano storia, memoria, metamorfosi della natura e inconscio all’immagine cinematografica.
Palindrome di Frampton, film astratto e traduzione “chimica” del biomorfismo per come lo aveva codificato Alfred Barr, ci è sembrato un tassello del puzzle, non solo per le figurazioni astratte prodotte dagli alieni come fossero inchiostro nell’acqua, così vicine alle emulsioni palindrome dello sperimentatore americano, ma anche per il modo in cui queste dialogano con la metamorfosi della natura fotografata con spirito quasi “Malickiano” da Bradford Young (suo lo splendido lavoro per “A most violent year” di J.C. Chandor), attento a rilevare forme archetipiche nei fenomeni biologici, sopratutto quando documenta l’esperienza di Hannah con la vita. Questa fusione tra biologico e tecnologico, vicina per certi versi alla natura già tecnologizzata di certa fantascienza e che Scott in Prometheus ha abbondantemente percorso, diventa con Arrival elemento allusivo, mai esplicito e totalmente riallocabile, per come si innesta nelle nostre vite.
Villeneuve allora non è interessato a individuare quel momento apicale in cui è possibile influenzare il futuro, al contrario rileva un punto cieco e indicibile, una prospettiva da cui è possibile guardarsi a distanza, senza conoscere, ed è in quella dimensione così sintetica ed infinitamente possibile che si può operare una scelta.