Il cadavere di un vecchio giace sopra una struttura di legno in mezzo ad una stanza disadorna. Al capezzale il figlio Majid e un medico. Quando quest’ultimo sarà accompagnato verso l’uscita dopo i controlli di rito, Majid gli chiederà di andarsene con discrezione, per non allertare i vicini e per mantenere riserbo totale sulla morte del padre.
Immerso in un tempo sospeso, scandito solamente da alcuni dettagli che traducono in immagine la solennità privata del rituale, comincia il primo lungometraggio dell’iraniano Mostafa Sayari, liberamente adattato da un romanzo di William Faulkner, lo stesso già portato sullo schermo da James Franco. Alla matriarca faulkneriana intorno alla quale si stringono i cinque figli di una famiglia derelitta e disfunzionale, descritta durante il viaggio che precede le esequie, Sayari sostituisce il padre di un nucleo iraniano, tre figli ed un quarto illegittimo, Majid (Majid Aghakarimi), l’unico che si è preso la briga di assistere il vecchio genitore durante gli ultimi dieci anni di vita.
A questo si uniscono Leila (Elham Korda), Siamak (Vahid Rad) e il rissoso Ahmad (Nader Fallah), tutti e quattro sulla strada, in mezzo ai villaggi desertici iraniani, alla ricerca del luogo dove il vecchio padre avrebbe voluto esser seppellito.
Sayari traspone la tradizione gotica del romanzo in un contesto in cui la densità dei simboli rimane comunque al centro, ma con una diversa cultura di riferimento e sopratutto senza che questi divorino il film. “As I lay Dying” è un misterioso e suggestivo road movie che mantiene quel girare a vuoto attorno alla propria coscienza e alle proprie radici, dove il tempo narrativo è quello di un presente apparente, attraversato da residui mnestici e dalla forza inconoscibile di una realtà archetipica.
La memoria non viene semplicemente evocata dai racconti dei quattro figli, ignari di una parte consistente delle loro reciproche vite e imprigionati in una terra di mezzo tra conoscenza e inquietante alterità. Sayari sfiora il ricordo attraverso l’apparizione di alcuni testimoni temporali, soprattutto la figura di un bambino, immagine allo specchio che trattiene il mistero di un ricordo e allo stesso tempo si spinge in avanti verso il presagio. Senza giocare d’anticipo, il regista iraniano si pone allo stesso livello di chi guarda, avvolgendo i suoi personaggi in quel terribile stato di passaggio tra la vita e la morte che ancora individua la persistenza del tempo.
Mentre il cadavere marcisce, la diffidenza nei confronti di Majid emerge con la forza di ciò che non può essere svelato. Ciascuno dei figli del vecchio patriarca nasconde una personale verità, tanto da mettere in campo le più comuni meschinità, subito dopo frantumate dall’orizzonte negativo del deserto.
Nel film di Sayari ci sono sei personaggi, incluso il cadavere. Questo gli consente di ridurre al minimo tutti gli elementi legati al cinema di genere, senza mai spingersi oltre alcune sollecitazioni che ne evidenziano l’astrazione.
Una macchina sembrerebbe seguirli, motore che Leila percepisce a distanza ma che non si manifesta mai, come una fata morgana che materializza e anticipa le paure interiori. Sayari costruisce una tensione allusiva senza farla mai esplodere, anche nella drammaturgia più basica, come quella legata alla lettura del testamento vergato dal vecchio patriarca, elemento che rimane fuori campo, ma che è in grado di contaminare la qualità dei rapporti tra i quattro fratelli.
Se Leila, la donna del nucleo, occupa un ruolo di mediazione, questo non può diventare effettivo in un progressivo viaggio verso l’ignoto.
La morte si manifesta allora su più livelli. Quella fisica del corpo marcescente, quella interiore legata alla disgregazione del nucleo che ancora una volta cerca di stringersi attorno alla figura del padre, ed infine quella di una comunità arcaica, lontana dalle grandi megalopoli e che persiste nelle voci che i tecnici del suono Ensiyeh Maleki e Mohammad Kianarsi catturano tra i vicoli dei piccoli villaggi, senza che alcuna figura umana si manifesti.
Questa collettività invisibile prende infine forma attraverso la figura del becchino, unico tramite possibile tra la vita quotidiana e il mistero della morte. Il corpo del vecchio è ridotto in pessime condizioni e l’uomo si rifiuta di lavarlo. L’oscenità della morte rimane tale e in quel netto rifiuto percepiamo il “non essere” di chi occupa una posizione sacrilega. Il vecchio non può essere sepolto senza dare scandalo e ciò a cui allude il becchino ha la forza di un odio atavico, espresso per sua bocca da un’intera comunità.
In questa sospensione del tempo, i quattro figli del vecchio patriarca possono solo continuare a girare a vuoto con il proprio congiunto, fino all’inferno.