Anghelopoulos “costruisce” un sogno.
Come il sogno, Paesaggio nella nebbia ha un linguaggio di non immediata decifrabilità e come il mito lavora per spostamento e condensazione, va decifrato, interpretato e scolpito nella sua dimensione enigmatica.
Leone d’Argento a Venezia, scritto con Tonino Guerra e Thanassis Valtinos, il film nasce da un topos fondante della nostra civiltà, il passaggio di formazione, e da un mito, quello del viaggio, che arriva fino a noi da ininterrotta, secolare elaborazione, immune dal tenace logorio della filosofia. Il mito non è storia sacra, non è dogma nè verità assoluta.
Proprio per il suo essere particolarmente plasmabile, malleabile, duttile, capace di subire qualunque pressione e deformazione senza perdere riconoscibilità, può acquisire nel cinema la sostanza iconica che è la ragione del riconoscimento del suo significato. Se quelli degli eroi antichi erano viaggi di peripezie, di rischio e di scoperta che li rendevano civilizzatori del mondo poiché le loro avventure avevano il significato collettivo di liberazione dai mostri che l’affliggevano, il viaggio nella nebbia di Voula (Tania Palaiologou) e Alexandros (Michalis Zeke) è affrontato come dura prova, imposto da una difficile circostanza, patito come una sofferenza. Vivaio di simboli, il mito è mascheramento, allusione al vero viaggio, quello della mente, della conoscenza, il viaggio che modifica anche la realtà che il viaggiatore incontra. E’ una specie di midollo della realtà, accompagnato da una straordinaria variabilità delle componenti marginali. Fratelli di undici e cinque anni, figli di padre ignoto, Voula e Alexandros credono di averlo, un padre, e che lavori in Germania. Così ha fatto credere sbrigativamente la madre. Vanno ogni giorno in stazione, finchè prendono coraggio e s’imbarcano su quel treno internazionale 290 con destinazione Germania. Non hanno nulla, denaro, mezzi, conoscenze, solo uno zainetto, ma sanno di dover andare, perché è parte dell’uomo di tutti i tempi la ricerca di un padre.
Alexandros lo ha sognato spesso: “L’ho visto in sogno ieri notte, mi è sembrato più alto delle altre volte”.
A ridosso delle tappe salienti del viaggio una voce legge brani di lettere al padre, forse non scritte, non per questo meno reali: “Caro papà, ti scriviamo perché abbiamo deciso di venire a trovarti.Non ti abbiamo mai visto e sentiamo la tua mancanza.Parliamo tutto il tempo di te. Mamma sarà triste per la nostra partenza, ma non pensare che questo ci fermerà. E poi, lei non può capire.Non sappiamo come sei fatto, Alexandros dice molte cose, ti vede in sogno. Ci manchi molto.E a volte, quando torno da scuola, mi sembra di udire dei passi dietro di me:i tuoi passi. E quando mi giro a guardare non c’è nessuno, e allora mi sento molto sola. Non vogliamo essere un peso per te:solo conoscerti e poi andremo via. Se ci rispondi, fallo col suono del treno…”
La loro personale odissea comincia con l’antico racconto sapienziale della sorella al fratellino, la sera, al buio, prima che la mamma passi a controllare: “In principio era il Caos, e poi fu la luce, e la luce si separò dalle tenebre e la terra dal mare, si formarono i fiumi, i laghi, le montagne e poi i fiori e gli alberi, gli animali e gli uccelli… “
Dal Caos i due strani bambini partono per un solitario cammino verso la luce, Anghelopoulos li riprende in lunghi piani sequenza, dissemina metafore, sovrappone quadri di vita che tracciano nuovi spazi, esteriori e interiori. E’ un viaggio infinito in una Grecia continentale di periferie spettrali e antichi paesi poveri, distese di neve e strade che si perdono nella nebbia. Nulla resta delle antiche glorie, la Loggetta delle Cariatidi occhieggia in un poster turistico dentro una stazione, militari e polizia ovunque, controllori sui treni e camionisti abbrutiti dall’alcool e da una vita infame, avventori di bar e passanti distratti, tutto scorre accanto a Voula e Alexandros. Nulla resta della philantropia di un tempo su cui la Storia è passata sfigurando ogni cosa, se il camionista può procedere indifferente allo stupro di Voula in una off-camera tremenda, carica della stessa forza evocativa dell’orrore fuori campo della tragedia attica. Eppure nulla corrompe la loro innocenza. Sono piccoli eroi di una triste diegesi che compiono in silenzio, non chiedendo mai aiuto.
Un cavallo morente nella neve e una sposa in abito bianco che corre fuori dal locale della festa piangendo, un suonatore di violino in un bar vuoto e una mano gigantesca che emerge dal mare e, oscillando nel cielo, è portata via da un elicottero, la troupe di attori girovaghi che provano la scena sulla spiaggia e poi vendono i loro costumi stesi all’aria perché nessuno li fa recitare (è la stessa troupe de La recita): immagini potenti, dense di rimandi, di senso magico che si sprigiona dalle cose comuni, chiamando lo spettatore ad un’ attività ermeneutica complessa e intrigante.
“Sono pronto per un nuovo viaggio. – diceva il regista in un’intervista nel 2000 – Non penso di essermi mai fermato, anche perché, quando non lavoro, mi annoio e mi sento inutile; considero infatti, il periodo che passa tra un film e l’altro solo un momento di attesa. Da giovane, inoltre, riuscivo a distinguere la vita dal cinema. Ora mi accorgo che la mia vita assume, sempre di più, le sembianze di un film: se voglio vivere devo continuare per forza a girare”.
“Véritables puissances du cinéma”, il viaggio di Voula e Alexandros è vita e cinema, mostra l’invisibile per mezzo del visibile, lascia al mistero i suoi margini, non fa sentire la mano del demiurgo che precostituisce soluzioni. Nel quadro di un realismo magico che ha però il sapore doloroso del sangue e della terra, i due bambini, inaspettatamente, troveranno il loro albero della vita.
C’è qualcosa che li spinge avanti, è la muta ostinazione di Voula, materna e consapevole, l’infantile allegria di Alexandros che, mentre chiede da mangiare e accetta di lavorare per averlo, s’incanta davanti al violinista che suona. C’è il giovane attore sempre sorridente, Orestis (Stratos Tzortzoglou), a cui li unisce un’attrazione istintiva, una corrente emotiva che opera sugli strati profondi, e il viaggio prosegue a tre, perdendosi e ritrovandosi ogni volta. Sarà lui a regalare ad Alexandros un frammento di pellicola cinematografica su cui sembra impressa solo nebbia, ma si può anche immaginare di vederci un paesaggio con un grande albero.
Caro papà, come abbiamo potuto aspettare tanto a lungo? Le illusioni sono come foglie che il vento si porta via. Che mondo strano! Valigie, stazioni sperdute, parole, gesti che non capiamo e la notte che ci fa paura. Ma siamo contenti, andiamo avanti.
Andranno avanti, in treno, a piedi e infine navigando sulla barchetta che sembra messa lì per loro, sul bordo del fiume, senza remi né motore, e non si ferma all’alt dei Vopos sul confine con la Germania. In quel luogo/non luogo troveranno il grande albero. E’ l’ Yggdrasill delle saghe nordiche, l’albero della vita. All’ombra di quei rami porteranno a compimento la loro necessità esperienziale, oltre la nebbia che copre il mondo.
So che un frassino s’erge / Yggdrasill lo chiamano,
/ alto tronco lambito / d’acqua bianca di argilla.
/ Di là vengono le rugiade
/ che piovono nelle valli.
/ Sempre s’erge verde / su Urðarbrunnr.
( Edda poetica.Profezia della veggente )