Kynodontas o gruppo di famiglia in un interno, monadi senza porte né finestre e senza un dio ad assicurare il loro divenire e le corrispondenze reciproche. Annullato il mondo esterno, chiuso fuori da un alto steccato, proni al volere del padre/marito/despota (Christos Stergioglou), autoritario ma sollecito ai bisogni fisici del nucleo famigliare, al punto da procurare il necessario appagamento sessuale al figlio (Hristos Passalis) introducendo in casa una donna (opportunamente bendata durante il trasporto), una moglie e tre figli vivono in quello che il padre ha decretato essere il migliore dei mondi possibili.
Villa con grande parco e piscina, habitat confortevole per una cronaca entomologica in cui, all’ osservazione delle interazioni tra gli insetti dannosi e quelli utili, si sostituisce quella fra bipedi umani normodotati, ma accuratamente privati del “sé”, e il demiurgo, deus ex machina che a tutto provvede, il Padre per antonomasia. Fantasia stralunata e geniale, Lanthimos vince a Cannes 62°, sezione Un Certain Regard, portando alle estreme conseguenze un tabù ancestrale, il padre che ingoia i suoi figli, complice la procreatrice femmina, la promordiale Gea.
Ma qui la madre (Michele Valley) è totalmente assimilata ai figli, non farà progredire la storia nascondendo, come Gea, l’ultimo nato in una grotta sul monte Ida, piuttosto si muove catatonica e dissanguata fra quelle larve umane, interagisce in simbiosi perfetta col marito/padre. Primo passo, il più fondamentale e funzionale allo scopo, è stato l’annullamento della comunicazione verbale basata sul convenzionale e corretto rapporto significante/significato.
“Le parole nuove del giorno sono: mare, autostrada, escursione e carabina”
Nell’incipit di Kynodontas da una cassetta registrata si diffonde la voce materna: “Mare” è una poltrona come quella che c’è in soggiorno, “autostrada” è un vento molto forte, “escursione” un materiale per produrre pavimenti, “carabina” un bellissimo uccello bianco.
In principio non fu il Verbo in questa specie di oltre-mondo che ha tutti i caratteri della realtà. I tre “bambini”, che ormai si aggirano sui vent’anni, vivono come avvolti da una super-placenta, giocano in gare assurde, frutto di una fantasia alterata, nuotano in piscina e intrecciano danze in un thiasos malato dove non fioriscono emozioni, e le reazioni violente esplodono come strane alterazioni momentanee, subito sedate.
Il linguaggio è al centro dell’azione di controllo, è bastato deviarne il significato, annullare quel patto universale tra umani che garantisce la comunicazione corretta, introdurre virus nel sistema, meglio, rendere virale il sistema stesso. Se per Popper, come riporta Bruno Snell, ne “La formazione dei concetti scientifici” (in La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, 1963, trad. Degli Alberti-SolmiMarietti, p. 323) “l’intelligenza è utile per la sopravvivenza se ci permette di estinguere una cattiva idea prima che la cattiva idea estingua noi“, bisogna considerare che “ la logica non penetra mai nella lingua dall’esterno, non ha origine al di fuori della lingua, ma i mezzi per designare i rapporti logici come tali si sviluppano solo a poco a poco nella lingua”
Ma se “language is a virus”, proclamava Burroughs, e gli uomini diventano zombies, si divorano a vicenda e il morso è contagioso, può anche spuntare Grant Mazzy, lo straordinario Stephen McHattie di Pontypool,impegnato nella ricerca di una vita nuova per le parole.
Non qui, però. Lanthimos va oltre, nel suo universo concentrazionario tutto è già avvenuto e quel che resta è uno scenario da after day in cui, per i prigionieri della caverna, non c’è altra condizione che continuare a guardare le ombre sul muro, convinti che la realtà sia quella. Racconto dell’orrore in cui il mostro è un’entità astratta da cui si è sconfitti in partenza, Kynodontas parla di un sovvertimento totale, benchè privo di spargimento di sangue che non sia quello del povero gatto, creduto una tremenda bestia feroce dalla percezione distorta del figlio. Lanthimos lavora sui contrasti: la leggerezza efebica del corpo dei tre ragazzi, la loro gestualità aggraziata, i colori brillanti degli spazi esterni e interni e la quieta superficie dei momenti comuni in famiglia stridono violentemente con la letargia funebre della loro vita, ripresa da inquadrature fisse o in pochi movimenti di macchina. L’aria che si respira è sinistra, un teatro dell’assurdo nella normalità del quotidiano.
Ma può esistere il controllo totale? Come spiegare il permanere di barlumi di luce che spingono a fare domande?
“Mamma, cos’è una fica?”
“Dove hai imparato quella parola?”
“Su una cassetta sopra il videoregistratore.”
“Una fica è una lampada grande. Esempio: la fica si è spenta, e la stanza è divenuta tutta buia.”
Un bug si è introdotto nel sistema, è Christina (Anna Kalitzidou), la dipendente nell’azienda del padre, prostituta a tempo usata per le esigenze del figlio. La ragazza sarà ben presto radiata, ma ormai il danno è fatto. La realtà, sia pure sotto forma di fiction contenuta in un VHS regalato da lei alla figlia maggiore (Aggeliki Papoulia), ha fatto il suo ingresso. Spinta ad accoppiarsi col fratello in mancanza di alternative, ignara di norme morali e come sempre mossa dall’automatismo indotto con la sottrazione sistematica della volontà da parte del potere, Bruce (è il nome che la ragazza si è data, non sa che è maschile ma ha scoperto quanto sia importante averne uno) è oscuramente portatrice di un’aspirazione alla libertà. Abbattere il tabù sessuale fino a praticare l’endofilia pur di non nuocere alla causa ha i suoi rischi, la manipolazione mostra delle crepe, Bruce si chiede se è possibile andare oltre il giardino.
– Quando un bambino è pronto a lasciare la sua casa? – chiede
– Quando il canino destro cade. O il sinistro, non è importante quale. In quel momento il corpo è pronto ad affrontare tutti i pericoli. Per lasciare la casa in sicurezza bisogna usare la macchina.
– Quando uno può imparare a guidare?
-Quando il canino destro ricresce. O il sinistro, non importa quale.
Kynodontas è il dente canino nella lingua di Lanthimos, quel greco che per primo fu libera espressione dello spirito umano e mezzo di conoscenza. Bruce se lo rompe, quel canino, a colpi di pesetto in piombo da palestra. Poi la fuga, o una nuova prigione, chissà, il finale è aperto, straniante, inatteso, geniale. Forse, ormai, oltre il giardino, being there, non c’è più nulla, questo faceva capire trent’anni fa Hal Ashby creando Chance, il giardiniere. Manipolazione della realtà, privazione della libertà, mistificazione e distorsione del significato: è la fine della polis in uno dei film più politici che siano mai stati messi in circolazione.