Dall’autobiografia di Aisin-Gioro Pu Yi, scritta nel 1964 e tradotta nell’87 da Bompiani col titolo Sono stato imperatore, Bertolucci trae un film che ha raccolto i più prestigiosi premi internazionali, sontuoso e spettacolare ma anche calligrafico e pittorico, intimista e raccolto, storia di uomini nel tempo della grande Storia, meditazione sul cinema e il suo doppio, la realtà effettuale.
Ritratto di un uomo solo, Pu Yi (John Lone, straordinariamente somigliante all’originale) ultimo imperatore del Celeste Impero, personaggio contraddittorio, passivo e ambizioso, debole e velleitario,vittima della storia e di sè stesso, il film ritrae il paradigma di una condizione umana segnata da un desiderio di centralità che si afferma come volontà di potenza, ma che nasconde una debolezza ineliminabile.
“Ogni uomo sogna di essere Dio e in ciò risulta sempre frustrato, risentito, aperto alla violenza” affermava Malraux ne La condition humaine, e per Pu Yi quel sogno poteva tradursi in realtà. Di fronte al marmocchio che salta giù dal trono e trotterella fuori dalla sala del trono, avvolto nell’ ingombrante abito da imperatore, si aprono fluttuando ampi drappeggi gialli e migliaia di servi s’inchinano ai suoi piedi. Ma Pu Yi era un “imperatore di niente”, così diceva lui stesso di sè, prigioniero di un mondo sull’orlo della fine che non gli lasciò nessuna libertà di azione nè possibilità di amore.
Padrone solo di un grillo chiuso in una gabbietta, quella che ripescò un giorno fra i cuscini del trono nella straordinaria scena finale e regalò al figlioletto del guardiano della Città Proibita,vive la parabola dell’uomo a cui una ragion di Stato impose di farsi Imperatore e che un’altra ridusse a giardiniere.
Metamorfosi raccontata con vivo senso della Storia e dolente attenzione alla psicologia dell’uomo, L’Ultimo Imperatore entra con Bertolucci nella Città Proibita, impressionante complesso di 250 acri e 9.999 stanze, solo una meno del cielo, per la prima volta aperta all’Occidente.
Costumi e suppellettili di rara bellezza e migliaia di comparse danno vita ad un affresco di grandiosità epica, e la storia di un popolo, al passaggio da una condizione feudale a quella di cittadini di una Repubblica Popolare, si riflette nella vicenda di un bambino strappato alla madre all’età di tre anni, costretto ad abdicare a sette, marito a quindici e prigioniero nella Città Proibita fino a diciannove.
Un tutor scozzese (Peter O’Toole) e una nurse sono le uniche persone con cui Pu Yi ha un rapporto autentico, ma ben presto perde anche loro. La guerra è alle porte e lui diventa il fantoccio di un altro potere, quello giapponese, che lo vuole in Manciuria per funzioni di pura rappresentanza.
Se è vero che “proprio nella fase di montaggio si produce il senso a ridosso dei legamenti delle immagini” (Boris Kaufman), questo film ne è una dimostrazione: scene d’infanzia e adolescenza nella Città Proibita e momenti di vita adulta si alternano in flash back da cui rimbalzano il senso di un destino, la qualità di un carattere, le coordinate di una vicenda epocale e i presagi di una fine annunciata. Quel treno che, in apertura, arriva alla stazione, gli ordini urlati alla massa dei prigionieri, il primo piano sul volto smarrito di Pu Yi con i suoi occhialetti tondi, infine il suo tentativo di suicidio, appartengono ad un incipit livido, opaco, fotografato da Storaro tutto nella gamma dei grigi. Ben presto, però, i colori squillanti del lungo percorso memoriale si sovrappongono e il fasto della Corte imperiale prende il sopravvento. Eppure non avvertiamo luce,vita,energia, piuttosto uno splendore malato, sopravvivenza fuori dal tempo di un rituale obsoleto, incarnato nella vecchia Cixi, l’Imperatrice Vedova. Maschera orrenda che si alimenta di giovani vite, è il primo segno della degenerazione funerea del sogno millenario di una nazione. Che sia un bambino di tre anni a pagare per tutti marchia di tragica ironia una storia che si dipana in una serie di dicotomie: imperatore/essere umano; maschera/persona; essere/sembrare; Io cosciente/inconscio. La dolorosa progressione psichica di Pu Yi inizia da bambino senza madre chiuso nei confini della Città Proibita. Adolescente, prende coscienza della sua impotenza, chiede aiuto e finisce, adulto, per svilirsi nei compromessi, fino all’ umiliazione della “rieducazione” da parte di un sistema totalitario che si ammanta di istanze democratiche.
Il corpo è il luogo in cui s’inscrive il potere, “si addentra nel corpo, si trova esposto nel corpo stesso” affermava Foucault. L’annullamento della mente si legge nella sua trasformazione. Pu Yi indossa ora la grigia uniforme del maoista perfetto, la sua schiena si curva, gli occhi si svuotano, il passato è una favola dolorosa e menzognera, il presente un grigio susseguirsi di giorni. Dieci anni di rieducazione non modificano il suo mondo interiore. Sarà sempre quell’essere smarrito che teneva un topolino nascosto fra le pieghe di seta degli abiti da imperatore, un grillo in una gabbietta, una lunga treccia che un giorno si tagliò in segno di rivolta e una bicicletta che non riuscì mai a superare quel muro.
L’Ultimo Imperatore è la storia di un uomo che vollero fare Imperatore e tornò da umile turista a sedere per un attimo sul suo vecchio trono.