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Atomica Bionda di David Leitch: la recensione

1989, poco prima della caduta del muro di Berlino, l’agente dei servizi segreti Lorraine Broughton (Charlize Theron), viene inviata nella Germania est per recuperare una lista di agenti segreti sotto copertura il cui utilizzo da parte delle persone sbagliate potrebbe portare al disastro. Il contatto della Broughton a Berlino è l’agente David Percival (James McAvoy).
Raccontato in media res, a missione ultimata e con la Brighton sotto interrogatorio da parte dei suoi superiori (Toby Jones e John Goodman che fa le veci della CIA), il primo film da “solista” di David Leitch dopo l’esperienza non accreditata con John Wick, desume proprio da quel film il dispositivo action raffreddatissimo e un linguaggio vicino alla superficie del cinema anni ottanta, con lo stesso tono e gli stessi risultati di Operazione U.N.C.L.E. di Guy Ritchie.
L’advertising di quegli anni, MTV, le luci al neon, la Theron che sottopone il corpo a sessioni forzate di crioterapia e un ricorso massivo e apparentemente filologico al synth pop fine decennio, con qualche deriva truffaldina (Marilyn Manson e una versione inglese di Der Kommissar) puntano ad una stilizzazione chirurgica dello spazio, tra città e set, cercando di recuperare una funzione coreografica dell’azione dove i corpi sono al centro, martoriati ma allo stesso tempo evanescenti e segmentati dalle luci, oltre che da una marcatissima iconizzazione che si riferisce agli aspetti più superficiali e banalizzati di una graphic novel. La sceneggiatura di Kurt Johnstad (300, Act of Valor) garantisce in questo senso  un’adesione meno filtrata possibile al versante action, salvo poi perdersi per strada con una serie di plot twists che non portano da nessuna parte e traducono gli stereotipi dello spy movie con una serie di enunciazioni didascaliche che zavorrano il film a quel cinismo moralista che vorrebbe descrivere un mondo al collasso.

All’estremo opposto, due sequenze che in qualche modo riassumono il senso del film. Un confronto dietro allo schermo del Kino International a Berlino mentre si proietta Stalker di Andrej Tarkovskij, con i corpi in controluce che combattono; e la battaglia più estrema e gore che Lorraine deve affrontare, il cui impatto fisico è alla base dei segni e delle cicatrici sul corpo con cui la vediamo esordire sullo schermo. 

Il contrasto è tra la presenza fisica della Theron, sul cui corpo mutante potremmo scrivere un saggio, e la dimensione virtuale ricercata da Leitch. Niente a che vedere con i feroci sconfinamenti tra digitale, corpo e animazione dell’ultimo Mad Max, ma è chiaro quanto la resistenza di Charlize all’anestetico visuale imposto da Leitch e dalla fotografia di Jonathan Sela sia completamente assimilata dalla presenza fisica e dal tentativo di arricchire la sua esperienza sul set di una qualità fortemente sensoriale e tattile. 

Purtroppo i sabotaggi di Leitch sono costanti e la sua propensione a congelare l’immagine nella geometria della postura è davvero letale, basta pensare all’incontro erotico di Lorraine e Delphine (Sofia Boutella, altro “corpo” straordinario, visto nel recente The Mummy) e a come un possibile ed ennesimo corpo a corpo venga depotenziato di qualsiasi polarità erotica. Per non sentire e resistere al dolore, meglio allora immergere Charlize in una vasca piena di ghiaccio. 

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